mercoledì 14 ottobre 2015

QUESTI PAZZI, PAZZI LETTI

La spiaggia di Natal, in fondo la lingua di sabbia di Morro do Careca
Come direbbero gli inglesi, e come provano alcuni racconti del blog sono, "accident prone", ho tendenza ad avere incidenti. Inciampo spesso, oscillo, mi scuoto come l'albero maestro di una nave nella tempesta, ma raramente cado, più sovente mi storco una caviglia. Oppure se c'è una qualsiasi barriera, palo, oggetto appuntito o sporgente, cancello pericoloso, vetrina (racconto "L'insostenibile trasparenza delle vetrine a Copenhagen"), pavé sconnesso (racconto "Attenzione caduta cani a Milano"), pietra nascosta da un ciuffo d'erba (e io ho i sandali), invariabilmente mi viene incontro e si para davanti a me in tutta la sua arroganza. Non c'è niente da fare, è più forte di loro,  devono assolutamente incontrare una parte del mio corpo. Ormai la mia imbranataggine è nota a tutti, soprattutto alle mie amiche Galline che mi aiutano a schivare gli oggetti all'urlo di "At-ten-ta!!!!". Quando ero adolescente avevo un amico che anziché salutarmi con un "Ciao, come stai?" diceva "Eccola che arriva e che inciampa", tante erano le volte in cui finivo stesa tra le sue braccia. Vero è che, in questo caso, spesso accentuavo la mia tendenza alla caduta, dato che lui era veramente carino e avrei voluto che fosse più di un amico. Mio marito è ormai abituato a sentirmi sgranare un rosario di "Porca miseria, accidenti, ma noooo, ecchecavolo" quando mi chiudo un dito nella porta finestra della cucina oppure prendo una testata nell'anta del pensile o, ancora, riesco a scottarmi il braccio infilando la teglia del Pollo con Patate nel forno. Ormai ride, mentre io lo guardo in cagnesco dicendo "Non hai nessun rispetto per il mio dolore". Vero è che rido anche io, la mia testa fra le nuvole fa parte di me e mi aiuta a creare il mito di "quella che si fa male, sempre e comunque".
Sono talmente distratta che riesco anche a far danni mentre dormo, anche se a volte la cosa non dipende proprio da me. Una delle tante volte è accaduta quando vivevo a San Paolo, in Brasile. Era la notte che precedeva un viaggio che avevo molto desiderato. La meta era Natal, un posto di magnifiche dune e mare aperto, lì avremmo anche incontrato una persona a cui tenevo molto e che si sarebbe fermata solo pochi giorni. Il volo era previsto la mattina presto e, di solito, ho tendenza ad avere un sonno leggero e agitato prima delle partenze all'alba. Ho la sindrome del "Terrore di perdere l'aereo perché mi sono addormentata". Quella notte no, dormivo come un ghiro, ero talmente rilassata da fare sogni meravigliosi. Il più bello è stato quello di rotolare lungo la duna più alta e grande di Natal, il Morro do Careca. Si tratta di una lingua di sabbia candida, lunga più di cento metri, contornata da vegetazione folta e rigogliosa, che parte dall'alto e scende a strapiombo verso il mare. In cima si gode di un panorama mozzafiato sulla meravigliosa spiaggia di Natal, lunga chilometri, dove l'oceano si infrange con onde da surfista. Un tempo si poteva salire fino in cima e scendere scivolando come su un'onda da surf, ora non più. Però, nel mio sogno il mio corpo rotolava giù, avvolto dalla sabbia, un po' come rotolavano i corpi dei protagonisti di "Zabriskie Point", prima lentamente poi sempre più veloce. La grande rotolata terminava in mare in un'esplosione di schizzi e allegria. Rotolavo, giù, sempre più giù, verso l'acqua cristallina, forse un po' fredda, ma senz'altro meravigliosa. Ad un certo punto, mentre stavo per toccare l'oceano ho sentito un tonfo e un dolore sordo alla schiena. In sogno rotolavo nella sabbia della duna, nella realtà avevo preso a rotolare tra le lenzuola, avevo esagerato e mi ero auto sbalzata dal materasso, cadendo tra il comodino e le zampe dell'antico, altissimo, letto appartenuto alla bisnonna della padrona di casa. Vedevo letteralmente le stelle, perché avevo urtato l'angolo del comodino giusto sulla nuca, toccando il suolo l'aria era uscita dai polmoni impedendomi di urlare, però devo aver fatto molto rumore, infatti una luce si è accesa nella stanza. Mio marito mi ha vista, lì, stesa a terra, inerme, stranita, stralunata e impietoso ha cominciato a ridere a crepapelle, mentre io cercavo disperatamente di alzarmi senza riuscirci. Nemmeno mi ha testo la mano, tanto si stava divertendo. Ancora oggi ricorda l'episodio in modo ilare. In quel momento l'ho odiato.
Non ho ben capito come mai, quando siamo in Sud America con mio marito abbiamo tendenza a scegliere case i cui letti sono altissimi, più alti della media europea. E' vero che abbiamo scelto anche appartamenti oltre il decimo piano, forse ci pare che stare più vicino al cielo se abbiamo una casa con un letto che guarda il mondo dall'alto. Anche in Venezuela, dunque, entrare nel nostro nostro letto era come scalare una montagna. La stanza era fantastica, completamente bianca: mobili, letto, tende, piastrelle, pareti, lenzuola, copriletto. Dormivamo dentro un letto king size, avvolti da un unico perfetto candore. Ai venezuelani piacciono molto le cose king size, letti, case, macchine, ristoranti, palazzi. Una notte mi sono alzata per andare a bere un bicchiere d'acqua in cucina. Ho tendenza a camminare scalza, deambulo veloce nei luoghi conosciuti della casa senza nemmeno accendere la luce. E' strano, ma di notte fiuto la strada, come un gatto, non sbaglio mai, arrivo a destinazione illesa come non ci arriverei di giorno. Calate le tenebre per me non esistono ostacoli di nessun tipo. Tranne quella volta. Sono entrata in cucina al buio, ho preso un bicchiere dalla dispensa e ho aperto la porta del frigo. Mi sono servita dalla bottiglia un grande bicchiere d'acqua fresca, faceva molto caldo, e ho bevuto immersa nella luce lattiginosa della porta aperta. Ho rimesso la bottiglia al suo posto e lasciato il bicchiere sul bancone. Ho ripreso il mio cammino verso la camera da letto, forse un po' abbagliata. Quando sono entrata mi sono avvicinata al letto, era buio pesto, una notte senza luna, ma sapevo esattamente dove andare per istinto. L'unica cosa che ho fatto è stato controllare di essere dalla parte giusta dell'enorme letto matrimoniale e ho toccato lievemente i piedi di mio marito. Sentito il calore del suo corpo addormentato, mi sono buttata sull'altro lato. Mi sono buttata a corpo morto, un tuffo con planata, una cosa che non faccio mai, ma vista l'altezza del letto ci stava che mi alzassi in volo prima di atterrare. Sì, prima di atterrare sul pavimento candido, duro come una lastra di ghiaccio e altrettanto freddo. Quel burlone di mio marito si era accorto della mia assenza e aveva deciso di farmi uno scherzo. Rotolando, consciamente e maliziosamente, aveva preso il mio posto nel grande letto. Mi aveva aspettata, semi addormentato, cosa che non gli ha impedito di ridere sotto ai baffi, sono sicura. Devo dire che si è molto divertito a guardarmi dall'alto, indecisa se ridere o piangere, ancora una volta incastrata, tutta dolorante, tra il comodino e le gambe del letto. A posteriori posso dire che anche quella volta, per un nano secondo l'ho molto odiato, però.

P.S. So per certo che mio marito nei momenti di tristezza ripensa a quegli attimi e torna a sorridere. E' bello sapere che si fa del bene all'umanità. No?

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