mercoledì 20 novembre 2013

CATTIVE COMPAGNIE

Una strada che non bisogno di viadotto 
Ero una giovane giornalista nella redazione di un settimanale locale e mi toccavano le corvée delle matricole. La mia passione è sempre stata il cinema e mi avevano assegnato la rubrica "Il film della Settimana", ma quello non bastava, il giornale voleva di più. Ero una sorta di jolly, vagavo da un argomento all'altro, saltando a piè pari dall'aia del signor Giovanni, dove erano scomparse le galline Gianna e Federica, alle interviste con i politici locali, passando a prestigiosi, e ambiti, in verità, articoli sulle sagre di paese. Come novizia era necessario che mi creassi quella rete di conoscenze e "puntelli" che servivano per arrivare dove un giornalista deve arrivare, cioè ovunque. Distribuivo come caramelle biglietti da visita, numeri di telefono, recapiti e suggerimenti sul come mettersi in contatto con me, in modo da non perdere neanche un "gancio". Passavo la maggior parte del tempo fuori dalla redazione in cerca di notizie, fiutando l'aria, annusando il terreno come un segugio ben addestrato. E in provincia le notizie latitano abbastanza, quando non sono del tutto assenti. Nei miei vari appostamenti e scarpinate venivo a conoscenza della vita amatoria e sessuale di molti cittadini a volte sconosciuti, ma più spesso conosciuti. Raramente nutrivo questo gossip casereccio, non era certo il caso che scrivessi che tizio era l'amante di caia, il giornale ne avrebbe ottenuto una bella querela e io perso qualche amico. Sbavavo per gestire i pezzi, così si chiamano in gergo gli articoli, soprattutto quelli più interessanti. Facevo carte false e spesso alla riunione di redazione affondavo i denti nella preda, il pezzo agognato, nei pochi secondi necessari a riflettere dopo la domanda del direttore "chi vuole occuparsene?". Spesso i pezzi mi venivano gentilmente consegnati proprio in quella frazione di secondo, un po' per la mia prontezza di spirito e, soprattutto, dall'esitazione dei miei colleghi. Se ci avessi messo un attimo in più a prendere fiato, ti avrei bruciato sul tempo.
Quella volta invece il pezzo era roba mia, l'avevo portato io ed era la conseguenza di un articolo che avevo scritto qualche mese prima. Il tema centrale era il raddoppio di una strada, il cui viadotto andava a collocare le  pile giusto in mezzo a un cimitero, anzi giusto in mezzo alle tombe dei notabili della città. Quelle belle tombe che sembrano cappelle, con angeli volanti, veneri piangenti o in assorta meditazione, croci arzigogolate, sculture e decorazioni opulente. La strada partiva dal basso e poi pilone basso, dopo pilone medio, dopo pilone alto sarebbe dovuta entrare in una lunga galleria che avrebbe sfoltito il traffico sulla strada principale, come un taglio di un bravo parrucchiere sfoltisce una chioma troppo folta. Il dramma era subentrato alla notizia che alcune cappelle, insieme a tombe più proletarie nella terra, avrebbero dovuto essere spostate insieme alle care salme. Era scoppiato un vero polverone, con attacchi da varie parti, carte bollate, richieste di articoli, insulti che volavano. Io stavo in mezzo alla bufera, foglia svolazzante in cerca di notizie. Il mio coinvolgimento era dovuto a uno dei miei ganci, amico dell'amico dell'amico che mi aveva procurato un'intervista con la proprietaria di una delle tombe deluxe. Un vero colpo di mano, perché a quel punto mi avevano asseganto l'intera inchiesta. E vai! Un'intera inchiesta significava firma sotto al pezzo, svariate settimane di vita frenetica, senza dover procacciare nulla, e una discreta somma di denaro. Quest'ultima cosa di non secondaria importanza, visto che lavoravo come free lance; eufemismo per indicare i giovani cronisti che non sono ancora stati assunti dal giornale, chissà quando lo saranno, cioè i peones che lavorano a cottimo, e un manipolo di giornalisti talmente bravi, integri e in gamba, da essere ambiti da chiunque abbia un giornale e quindi loro snobbano tutti e lavorano in proprio. Questi ultimi sono pochi, ma superlativi. I primi abbondano, pullulano, sono una moltitudine e parecchi dopo un po' mollano, trovano un mestiere più redditizio. E forse di minor soddisfazione.
Tornando a bomba, insomma con quella strada avevo in mano l'oro.
In quelle stesse settimane era scoppiato un caso ancora più clamoroso, eclatante, intrigante ed esaltante.  C'era un tizio che si dilettava a uccidere signore dalla facile moralità, per l'esattezza professioniste del sesso. La polizia aveva stabilito che dovesse essere unO e non unA. Ne aveva ammazzate già due, strangolandole a casa loro, dopo aver pagato la prestazione. Insomma un cliente insoddisfatto. Forse. Non erano gli anni di CSI, RIS e varie sigle che analizzano la scena del crimine, erano gli anni ruspanti della Scientifica e della polizia che indagava senza particolari supporti elettronici se non un computer e un cervello. L'era 2.0 era iniziata, ma era ancora molto, molto acerba. In quelle settimane c'era molta agitazione nel mondo del giornalismo, un'euforia tipica del cinismo dei giornalisti: la città pullulava di buone notizie e le buone notizie per un giornalista, sono pessime per il resto del mondo. Avrei ucciso per occuparmene, ma avevo la mia strada.
Io lavoravo al mio pezzo sul cimitero spaccato in due dal viadotto e analizzavo molti progetti, dati tecnici e intervistavo persone. Avevo un contatto, un contatto eccellente. Si trattava del guardiano del cimitero, un personaggio interessante. Un passato di studente politicizzato, una quasi laurea in filosofia, mi accoglieva alla sua scrivania, sulla quale spiccavano una copia della Critica della Ragion Pura  di Kant, due quotidiani, "La Stampa" e "la Repubblica", un telefono e un blocco per prendere appunti. Penne ordinate per colore, matite perfettamente spuntate e righelli messi per ordine di grandezza. Mi teneva aggioranta su quanto accadeva nel suo regno, furti di piante, violazioni di tombe, spostamenti di vasi con fiori recisi, vandalismi, tutte quelle piccole cose che potevano diventare un grande articolo in mancanza di meglio o un rimpitivo in caso di affolamento di notizie importanti. Era prezioso per le mie ricerche, una fonte inesauribile di anedotti, indirizzi, numeri di telefono e custode deille lamentele dei parenti dei cari estinti. Era un biondino sulla quarantina, un po' stempiato, non pulitissimo e nemmeno troppo bello, ma chiacchieravamo amabilmente prima di metterci al lavoro. Mi telefonava spesso in redazione, mi aggiornava su quasi tutto. Ero molto fiera del mio contatto, che passavo volentieri ai miei colleghi non essendo una persona gelosa. Tutti i miei colleghi mi prendevano in giro, persino quelli delle altre testate, sostenevano che io avessi un debole per il professor Bara, come lo chiamavano loro.
Una mattina arrivo in redazione e non trovo la mazzetta di copie dei quotidiani del giorno, non erano nel posto dove normalmente si trovavano. L'ordine era che non si dovessero muovere da lì, né da soli né accompagnati. Potevamo consultarli come e quanto volevamo, ma rigorosamente in piedi sopra al mobile dell'archivio. Questa originale richiesta era fondamentale per evitare "occupazione abusiva" di quotidiano, come era spesso accaduto in passato. Quella mattina le copie erano sparite. La sergretaria di redazione non aveva la più pallida idea di dove fossero, il collega della pagina cittadina era rimasto all'asciutto di lettura anche lui, il direttore non sapeva, lui di quelle quisquilie non si occupava. Ho iniziato a lavorare, il telefono ha cominciato a squillare e la segretaria di redazione rispondeva con grande solerzia e insolita pazienza che "no, è fuori". Io guardavo la redazione, era piccola, eravamo tutti lì, non mancava nessuno, nemmeno il grafico. Mi chiedevo a chi si potesse riferire, forse al fotografo che però non stava in redazione per abitudine. E infatti proprio mentre concludevo questo mio pensiero era entrato lui, la macchina fotografica al collo, la sua andatura vagamente tracotante e mi apostrofava, ruvido come sempre: "Belle frequentazioni che hai". La segretaria e il mio collega della pagina cittadina erano balzati dalla sedia e lo avevano quasi aggredito. Lui li aveva guardati interdetto. Mi sono sentita come il cretino che ignora qualcosa che gli altri sanno. Un giornalista che si rispetti è sempre un po' cinico e molto dubitativo, e io in quel momento ero molto, molto giornalista e dubitavo parecchio. I miei colleghi mi stavano nascondendo qualcosa. E' grazie a queste sensazioni, al captare un mutamento di atmosfera, nel cogliere un battito di ciglia di troppo, nell'annusare la paura o l'agitazione che un giornalista a volte arriva a scrivere il grande pezzo. Sono le vibrazioni e l'intuito, insieme all'ottima scrittura, a fare la differenza. A quel punto ho avuto un'intuizione, ho fatto due più due, giornali, spariti, frequentazioni, non belle. Qualcuno con cui avevo lavorato ne aveva combinata una. Speravo fosse il solito politico e non capivo perché tutti cercassero di nascondermelo. Mi sono alzata, i giornali erano nascosti da qualche parte, lo sapevo. Mi sono fiondata nell'archivio ed eccoli lì, piegati sotto le diverse copie del giorno prima. Titolo a otto colonne in prima pagina della cronaca cittadina: "Preso il Serial Killer delle Prostitute", strillava. Sotto la foto del mio amico, il biondo filosofo custode del cimitero. Un brivido ha percorso la mia spina dorsale mentre la mia testa pensava "Come imposto il pezzo?".

Nessun commento:

Posta un commento