mercoledì 16 ottobre 2013

BIANCO


Oggi anziché il solito racconto di viaggio o ricordo d'infanzia, di vita vera e vissuta vi presento uno dei miei racconti usciti dalla mia fantasia. Nasce qualche anno fa in subito dopo una nevicata a Milano, la città era perfetta, romantica e silenziosa. Ho immaginato i miei due protagonisti in quella mattina, rara e insolita. Il ristorante citato non esiste più, ma era un luogo che mi piaceva molto, rustico ed elegante, altri hanno preso il suo posto e i miei protagonisti potrebbero trovarsi davanti ad uno di questi. 




Silenzio. È insolito, il silenzio. Nessun tram che sferraglia, nessuna sirena che urla o un clacson che protesta nervoso, nemmeno il brusìo ossessivo del traffico.
Solo una rumorosa quiete lo aveva svegliato e lui era rimasto lì, nel dormiveglia, a chiedersi perché questa mattina Milano sembrasse dormire ancora. Bip-biiip-bip-bip. Le sette meno un quarto, Lucio aveva spento la sveglia che continuava a bippare antipatica. Piano, piano aveva portato la gamba destra fuori dalle lenzuola. Freddo. Si era girato sul fianco, si era messo seduto sul bordo del materasso ed era rimasto immobile, così, per alcuni secondi a saggiare lo stato di risveglio. Avrebbe avuto voglia di sdraiarsi di nuovo e tornare a dormire, ma in quel modo non avrebbe scoperto che cosa era successo alla città quella mattina. Allora, appoggiando le mani al materasso si era alzato e aveva tirato su la tapparella sulla via, dove gli alberi avevano i rami nudi e scuri già da un mese. Una meringa. Attraverso il vetro, la via sembrava un’enorme torta di panna con pezzetti di meringa e stecche di cioccolato come decorazione. Neve. Silenzio. Bello, si era detto Lucio con un sorriso sghembo.
“Quando smetterà di nevicare sarà acqua, fanghiglia, scarpe bagnate, poltiglia grigia, pozzanghere profonde come un mare, però oggi è bello”, pensava mentre si faceva la barba in bagno e guardava la sua faccia allo specchio. Il volto scavato, il naso affilato, le orecchie leggermente a sventola. Tutto sommato niente male, si era complimentato mentre spalmava il dopobarba.
La neve continuava a cadere in grandi fiocchi irregolari mentre Lucio faceva colazione. Lo speaker di Radio Popolare commentava le ultime notizie della rassegna stampa e diceva che avrebbe smesso di nevicare solo verso sera, che in quel momento i mezzi di trasporto erano fermi, che solo la metropolitana stava funzionando, e la città sembrava un deserto.
“Non prendete la macchina”, si raccomandava con voce morbida.
“Chi può permettersi una macchina”, diceva Lucio rivolto alla gatta che lo guardava con i suoi grandi occhi ambrati. Lui era un ragazzo da metropolitana e, ci avrebbe scommesso, quella mattina ci sarebbe stato un gran bel casino. Lucio si era vestito, non doveva perdere la metro delle otto e mezza. Ammesso che le corse fossero regolari. Mentre indossava il cappotto aveva buttato un’occhiata all’orologio. Accidenti, si era perso a guardare il panorama ed era in ritardo. Fuori l’aria era fredda, le orecchie improvvisamente gli avevano ricordato che il cappello era rimasto sull’appendiabiti. Si era girato per tornare indietro. “Se prendo il cappello, perdo la metro”. Ci aveva ripensato. “Non importa, che vuoi che sia un po’ di neve sulla testa”, si era detto ignorando la calvizie incipiente infreddolita.  
Nella metropolitana c’era tanta gente e faceva caldo, la testa e la faccia gelate si erano messe a pulsare stimolate dal calore. Schiacciato fra un signore in completo grigio e un ragazzo con lo zaino sulla schiena Lucio respirava appena.  Alla fine, dopo qualche fermata, era riuscito a sedersi. Come tutte le mattine aveva indossato le cuffiette e in quel momento Thelonius Monk e il suo quartetto lo isolavano dal mondo. Era libero di correre con la mente. Galoppava e scorreva gli ultimi mesi. La metro delle otto e mezza, sì, sì, era riuscito a prenderla.
La incrociava tutti i giorni alle nove davanti al Tintero. Anche se lavora lì vicino, Lucio al Tintero non ci aveva mai messo piede. Lui non pranzava mai fuori dall’ufficio, e meno che mai al ristorante, gli sembrava una perdita di tempo, meglio un panino alla scrivania, prosciutto e burro, glielo portava sempre il suo amico Giovanni. Adesso, però, il Tintero era diventato il suo posto preferito, perché lì davanti incontrava quella ragazza così carina. Non tanto alta, minuta, con una massa di riccioli rossi e la pelle chiara, aveva un sorriso luminoso. Lucio ignorava il suo nome e non aveva mai osato fermarla per chiederglielo, anche dopo che si erano scambiati il primo saluto. “Buongiorno” aveva detto lei, “Buongiorno” aveva risposto Lucio. A volte, seduto in metropolitana, si era immaginato mentre le rivolgeva la parola raccontandole che era un programmatore di computer, che lavorava in un grande ufficio e, nella sua testa, si era spinto addirittura a chiederle di pranzare insieme. Tutto sempre chiuso nella sua testa. A immaginare e mai osare. Quella testa che aveva inventato situazioni e parole, proposte, inviti. A volte accettava, a volte rifiutava, ma la voce delle risposte era sempre quella di Lucio. Certo, lei lo guardava con quel suo sguardo vellutato, quello che usava tutti i giorni per ricambiare il suo buongiorno, ma nella mente di Lucio la voce non c’era. Solo sguardo. Forse, quello sguardo era una risposta silenziosa.
Anna, ha la faccia da Anna. Una sera Lucio si era sorpreso a sceglierle un nome, almeno avrebbe smesso di essere Lei o la Rossa Carina. Che anche quel giorno avrebbe incontrato. Oppure no?
Quella mattina uscendo dalla metropolitana Lucio era rimasto a bocca aperta. Era proprio un giorno speciale, irreale, surreale, fantastico. Intorno a lui c’era il deserto, nevicava e lo spettacolo era magnifico. La mole imponente del Castello Sforzesco s’intravedeva appena attraverso la foschia e i fiocchi che cadevano fitti. Lucio camminava cauto, passi incerti, per non rovinare lo strato di neve intonsa e perfetta. Thelonius Monk continuava ad accompagnarlo, con quella musica struggente e cullante. Si era fermato un attimo, aveva respirato, la testa già ghiacciata, le orecchie fredde, aveva sorriso. Poi, si era avviato verso l’ufficio. Le nove e cinque, il cuore si era fermato di un battito, sono le nove e cinque. “L’ho mancata. Accidenti l’ho mancata”, quasi gli erano salite le lacrime agli occhi. Invece l’aveva vista. Camminava lungo Foro Bonaparte, arrancando un po’ nella neve. Il piumino verde mela e il cappello nero coperto da un monticello di fiocchi la facevano sembrare un insolito, gigantesco pasticcino. Teneva le mani in tasca e si era guardata intorno, come se stesse cercando qualcuno. Poi aveva visto Lucio gli aveva sorriso. Un sorriso grande, luminoso. Il sorriso di chi ha quello che vuole. Lucio si era preparato a dire il solito “Buongiorno”, come tutte le mattine. Aveva inspirato l’aria fredda e aveva sorriso anche lui. Il sorriso di chi ha trovato quello che cercava. Lei si era avvicinata, lenta, nella neve alta. A un certo punto aveva fatto una specie di affondo, le braccia tese davanti a sé. Era sembrata cadere, cadere verso Lucio che aveva tirato fuori la mano dalla tasca e l’aveva afferrata. Lui non aveva mosso un muscolo, rimasto senza fiato dopo quel primo contatto fisico. Aspettava. Gli occhi castani di lei fiammeggiavano di una strana furia, erano profondi e intensi. Poi lo aveva afferrato per il bavero del cappotto e lo aveva guardato dritto negli occhi per qualche secondo. Sembrava volerlo rimproverare per qualcosa, ma non aveva detto nulla. Lucio era rimasto immobile a guardarla, lei allora di colpo aveva passato le mani dietro la nuca di lui e si era avvicinata. Si era avvicinata pericolosamente al viso di Lucio, paralizzato, poi con le labbra aveva sfiorato le sue. Una lunga scossa aveva percorso la colonna vertebrale di Lucio, una luce era esplosa dietro ai suoi occhi. La bocca di lei era soffice contro la sua. Un bacio duro, brusco però. Lucio era impietrito, si sentiva come se il ghiaccio di quella mattina gli fosse entrato dentro. Non accennava a muoversi. Allora, lei aveva dischiuso le labbra e con la lingua aveva dato leggeri colpetti al labbro di Lucio che aveva risposto automaticamente movendo la lingua al suo ritmo. Il tempo si era fermato, le mani di lei frugavano sotto il cappotto. Lui era rimasto immobile, basito, esterrefatto. Sentiva dentro un calore che scioglieva il gelo di prima, che liquefaceva ogni inibizione, ogni timidezza. Dopo lo stupore Lucio aveva preso coraggio e si era avventurato nel piumino verde, cercando il suo seno, sorpreso di trovare solo una camicetta, stupito di non sentire un reggiseno. Si erano baciati come se fosse l’ultima volta, come se non ci fosse stato nessun altro al mondo. Intorno a loro non c’era l’urlare delle sirene, non c’era lo sferragliare dei tram, non c’erano i passanti, solo il silenzio della neve che continuava a cadere nel cappello nero rovesciato a terra. Si erano sfiorati, toccati, senza scambiarsi nemmeno una parola. Le mani avevano accarezzato, palpato, inquiete, dure, eccitate. Lui tremava indeciso, frugale, timido. Lei mugolava leggermente, più audace, sfacciata. All’improvviso lei si era staccata, guardandolo di sottecchi, si era abbassata a raccogliere il cappello, aveva scosso via la neve e lo aveva rimesso in testa. Si era girata, “Buongiorno”, aveva detto. Lucio aveva risposto meccanicamente “Buongiorno”, come aveva fatto tutte le mattine, alla stessa ora, per tre mesi. Lei era si allontanata lasciandolo fermo sul marciapiede innevato; l’orologio di Lucio segnava le nove e venti; Thelonius Monk aveva smesso di suonare da un bel po’. 

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