mercoledì 18 settembre 2013

PRIMI GIORNI DI SCUOLA

Disegno Regalo di Anna alle Elementari 
In questi giorni di rientro a scuola per tanti bambini e ragazzi sono stata presa dalla nostalgia e dal ricordo dei miei, di primi giorni di scuola. 

Il primo giorno di asilo non lo ricordo bene, avevo tre anni ed ero a Tiberiade. Però, ricordo perfettamente come ero vestita perché uno scatto galeotto mi ha ritratta mentre uscivo di casa. Avevo una salopette di jeans arancione e una maglietta blu, i capelli cortissimi e un paio di scarpe blu con gli occhi. Le scarpe con gli occhi, un grande classico di tutti i bambini di molte generazioni. Le adoravo. Erano le uniche che non abbandonavo sui muretti o in mezzo alla polvere, sono sempre stata una selvaggia e ancora oggi amo camminare a piedi nudi. Di solito le scarpe che abbandonavo, le dimenticavo anche, sparivano in un battibaleno. Mia madre era disperata. Quel giorno deve aver pensato che per evitare spiacevoli inconvenienti sarebbe stato meglio farmi indossare le scarpe che io non avrei abbandonato mai, a costo della vita. A testimoniare quel primo anno di asilo è rimasto un album da disegno, che si apre da destra a sinistra e non da sinistra a destra come i nostri. Già, da quelle parti si scrive al contrario rispetto a noi. A quei tempi tutti pensavano fossi un maschietto, visto le tenute con cui mi vestiva mia mamma. Aveva la spiacevole tendenza, o l'idea pratica, che pantaloni e salopette fossero più adatti per giocare. L'aggravante dei capelli corti mi ha rovinato l'infanzia, ho sempre detestato che dicessero accarezzandomi la testa rapata "Ma che bel bambino". Io rispondevo regolarmente: sono una bambina, accidenti. Anche al primo giorno di asilo mi hanno detto che bel bambino. Ho sempre detestato i capelli corti, e il fatto di sembrare un maschio. Ho recuperato col tempo, raramente ho tagliato i capelli cortissimi dopo quegli anni. In effetti, però, c'è stato un momento della mia vita in cui ho sfoggiato un taglio a spazzola. Sono pentita ancora oggi.
Il primo giorno di scuola elementare mi trovavo a Roma, e ricordo perfettamente la tenuta che avevo. Un bel grembiule bianco, un fiocco azzurro e sotto la mia solita salopette, questa volta di jeans. I capelli erano un po' più lunghi, e avrebbero comunque potuto scambiarmi per un maschio, ma nessuno lo ha fatto. I maschi avevano il grembiule blu e il fiocco bianco. Ho amato subito la mia maestra. Una signora di età indefinita, con un taglio di capelli corto ma morbido e gli occhiali. Ricordo ancora il suo nome, la Signora Racioppi. Da lei ho imparato a leggere e scrivere, e ho imparato cos'era un fioretto. Ogni fioretto che facevamo, ogni buona azione che compivamo doveva essere documentata sul quaderno in un'apposita pagina col disegno di un fiore piccolino, centro rosso, petali gialli. La Signora Racioppi è andata in pensione quando ho cominciato la seconda elementare, il primo giorno di scuola sono rimasta delusa, al suo posto c'era una signorina antipatica e secca. L'avrei definita una vera virago, se ai tempi avessi saputo cos'era una virago. L'unica soddisfazione di quel primo giorno è stata l'avere i capelli abbastanza lunghi per fare due miseri codini decorati con due nastrini arancioni. La signorina secca era una supplente, il vero maestro è arrivato dopo. Suonava la chitarra ed era un po' cialtrone. Eravamo pazzi di lui.
Ho avuto anche un primo giorno di terza elementare, perché ho cambiato paese e scuola. Ricordo il mio stupore di non avere una cartella, perché i libri che non erano necessari per fare i compiti rimanevano sotto al banco e non portavamo il grembiule. La mia nuova compagna di banco si chiamava Anna, sarebbe anche diventata la mia amica del cuore.
Insieme abbiamo cominciato le medie, che in Belgio, paese dove vivevamo, erano ancora elementari. Il primo vero giorno di medie avevo i capelli che mi arrivavano fino alle spalle e mi sentivo molto adulta. Indossavo un paio di jeans di Fiorucci e una camicia di jeans, non so come mai, ma non avevo perso l'abitudine di vestirmi da maschio il primo giorno di scuola. I capelli mi arrivavano sotto alle scapole e nessuno, nonostante la tenuta, mi prendeva più per un maschio. Anna non c'era, era ripartita per "non mi ricordo più dove", sono stata costretta a trovarmi un'altra amica del cuore, ma nessuna era come lei. Siamo amiche ancora oggi.
Il primo giorno di liceo (Scientifico) mi sono di nuovo trovata in un altra nazione, che in realtà era la mia, in un mondo completamente diverso da quello in cui ero vissuta fino a poco tempo prima. Uno shock culturale quasi insormontabile. Avevo i capelli tagliati a caschetto, con una frangia che mi copriva gli occhi ed indossavo un paio di jeans rossi di velluto a coste con una camicia bianca e un golfino grigio. Avevo anche le scarpe rosse, la mia compagna di banco era una ragazza carina e tranquilla, la ragazza del banco davanti aveva denti davanti cariati e i capelli unti. C'erano un  paio di ragazzi che mi erano parsi "niente male" e qualcuno veramente simpatico. Sono stati i miei compagni di classe per poco. Mi sono di nuovo trasferita e ho cambiato anche indirizzo scolastico, sono passata al Liceo Linguistico, previo esame di ammissione per controllare che non fossi del tutto ignorante. Anche lì ho avuto il mio bravo primo giorno, nuovi compagni di classe e nuovi insegnanti. Portavo i capelli nel solito caschetto che era diventato il mio marchio di fabbrica e il solito paio di jeans, questa volta bianchi.
Il primo giorno di Università faceva freddissimo, era nebbiosissimo e mi trovavo a Milano. Avevo fatto un esame di ammissione per la Scuola Interpreti e Traduttori ed ero stata, felicemente, ammessa al terzo anno. Il professore che ci ha accolti era un signore magro, con un completo marrone e una pelata inciepiente. Pare fosse un grande traduttore, ma non riesco a ricordarne il nome, non so come mai. Ci ha salutati in italiano, specificando che sarebbe stata l'unica volta e poi ha detto "For breeeekkking di ais..(ha sorriso).... dictation" (per rompere il ghiaccio, dettato) . Ha pronunciato le parole con un pesantissimo accento italiano e come se dicesse "for break in the eyes" (per rotto negli occhi, traduzione letterale piuttosto maccheronica come la sua pronuncia). Ci siamo guardati tra di noi e siamo rimasti immobili. Non sapevamo cosa fare, se guardarlo negli occhi o se rompergli un occhio. Lui ha ripetuto e allora noi abbiamo visto la luce, ridacchiavamo mentre prendevamo un foglio di carta e la penna. Il mio vicino era un ragazzo simpatico con un giaccone color verde militare e gli occhiali dalla montatura nera, non ricordo se avesse già i capelli tagliati come un punk oppure se fosse ancora pettinato come un bravo ragazzo timorato. La mia vicina aveva una chioma fluente, abbondante e bellissima,  e poco distante un'altra ragazza aveva i capelli lisci e rosso tiziano. Io sfoggiavo un paio di jeans e un maglioncino giallo senape, i capelli in una della varianti del caschetto. Quello strano gruppetto è stata la mia famiglia nel corso dei tre anni deliranti in una scuola difficile e prosciugante. Il secondo primo giorno di Università è stato in realtà il terzo anno della Facoltà di Lingue e Letterature straniere, a cui ero stata ammessa per avere terminato la Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori con profitto e successo. Prima lezione, Letteratura Inglese III, Professor Buffoni. Un personaggio amante delal letteratura bucolica inglese del XVIII secolo. Un osso durissimo agli esami, giovane poeta esigentissimo soprattutto con le sue allieve, quindi con la maggioranza dei suoi studenti. Quel primo giorno indossavo il solito paio di jeans, non quello della prima media, ma ovviamente un altro comprato qualche tempo prima. E mi è sorto il dubbio che forse quella dei jeans è stata la mia divisa e il mio feticcio per tutti i primi giorni di scuola della mia vita.
Ricordo perfettamente la prima volta che sono arriva in redazione nel giornale per cui avrei collaborato. Avevo il colloquio con il direttore. Non indossavo i jeans, bensì un vestitino nero, una giacca color ruggine e un paio di scarpe con il mezzo tacco. Però, il primo giorno di lavoro avevo un paio di jeans, una camicia bianca e una giacca nera. Le scarpe col tacco e i capelli lunghi e ricci. Nessuno mi ha preso per un maschio. E in un ambiente pieno di uomini come erano le redazioni dei giornali un tempo, quello non era certo un vantaggio.

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