martedì 21 maggio 2013

NEW YORK STATE OF MIND


Lo Skyline di Downtown da Williamsburg, a destra la Freedom Tower in costruzione
Ogni volta che arrivo a New York è come se fosse la prima volta. Già l'atterraggio al JFK Airport mi emoziona, la terraferma, l'oceano, che diventa fiume, le case, il verde che si trasforma in spiaggia e l'orizzonte che sfuma nella città mi elettrizzano. Solo la coda al controllo passaporti mi riporta sulla terra e mi conferma che sono arrivata in quella che è la porta dell'America. La routine del viaggiatore di oggi prova che la porta dell'America è socchiusa, c'è il catenaccio e lo tolgono solo quando sono sicuri che sei innocuo. Il poliziotto delle dogane, ti scruta e non sorride, come la maggior parte dei poliziotti in quel ruolo, in tutto il mondo. Li scelgono con una paresi del sorriso, controllano che i muscoli addetti a stendere le labbra siano atrofizzati, lo fanno apposta, solo se sei truce abbastanza puoi stare al controllo passaporti di un aeroporto. Guardano il passaporto poi te, poi di nuovo il passaporto, poi lo passano nel lettore ottico. Segue la trafila delle impronte digitali, mano destra, mano sinistra, pollice destro, pollice sinistro, foto alla tua faccia stravolta dal volo intercontinentale, allora provi un sorriso sbilenco, tanto per non risultare veramente orrenda nel ricordo che lasci allo Stato americano. Poi, finalmente la porta si apre e sali sul taxi. Alla guida di solito trovi un personaggio improbabile che parla un inglese ancor più strano, spinge la macchina sull’expressway trafficata, tra le case basse del quartiere Jamaica,  quartiere che in una parola definisce un'identità. Case povere e case meno povere sfrecciano dai finestrini dell’auto, davanti al passeggero uno schermo televisivo spesso informa sulle ultime notizie. Il resto del percorso dipende dall'indirizzo che hai dato al taxista. Dal taxi guardo assorta il panorama, mi godo l'istante e aspetto. Aspetto il momento in cui tra uno spiraglio del sedile davanti, vedo la punta di un grattacielo, allora mi infilo le cuffie e faccio partire la prima canzone della playlist che ho creato apposta. Da sempre, come la prima volta, le note di “New York, New York” mi esplodono nelle orecchie. Piano, piano Manhattan si avvicina e lo skyline della città si fa più netto e preciso, anche se a volte è leggermente appannato dall’afa estiva. Nel primo autunno l'aria è tersa, trasparente, il cielo di un azzurro impossibile, come in primavera. D'inverno non so, non ci sono mai stata. I capannoni industriali si succedevano per lasciare posto alle case e al verde di Flushing Meadows, poi si attraversa uno dei ponti sull’East River, il mio preferito è quello di Williamsburg, perché la prospettiva mi piace, si vede tutta la punta estrema del Downtown, dove una volta c'erano le torri gemelle e oggi la Freedom Tower. Mi piace molto anche arrivare sulla Fifth Avenue, costeggiare Central Park e guardare il taxi che si avventura nel traffico. Non posso farci niente, ogni volta è un'emozione attraversare i grandi canyon formati dai grattacieli che sembrano schiacciarmi nella loro imponente sfacciataggine. Il cielo a volte grigio, a volte turchese, che scompare e appare secondo l’altezza del palazzo mi commuove. Di solito, se vai verso Downtown, ad un certo punto appare la familiare silhouette dell’Empire State Building e hai la certezza di essere veramente a New York. Allora mi piace avere nelle orecchie Lou Reed con “Walk on the Wild side”, un pezzo adatto al momento perché un tempo quel grattacielo segnalava l'inizio della parte selvaggia della città. Un sottile limite fra chi può e chi non può, sotto l'Empire ci sono Little Italy, Tribeca, Meatpacking, Chinatwon, Lower East Side. Si scende lungo la spina dorsale della città verso Greenwich Village e la punta estrema dell'isola, passando dal centro pulsante, dove la gente corre, cammina in vestiti eleganti o negli stracci dei barboni senza tetto. New York è così, un saliscendi di emozioni, un avanti e indietro nella scala sociale, nella ricchezza e nella povertà, camminare in città è come volare su un otto volante. Alla fine, passando i quartieri eleganti, lasciando alle spalle le zone alla moda, un tempo si arrivava nell'inferno. Che fosse Lower East Side o Meatpacking, erano posti pazzeschi con case diroccate, spazzatura per strada, spacciatori all’angolo, creativi, attori, tossici, studenti, barboni alcolizzati e nullafacenti decoravano i marciapiedi. Oggi, oggi, tutto è diverso, in quello che era il tempio del Punk, il CBGB sulla Bowery, la via dei barboni, c'è il negozio dello stilista John Varvatos. Tutto splende, lucidato e laccato. Esistono ancora alcuni bar dove bevi fianco a fianco con un signore di cui non puoi immaginare la provenienza e la professione, ma il cui aspetto è lontano dall'essere rassicurante. Sono rimasti pochi i locali dove bere in pace e fare i fatti tuoi senza sentirti scrutato da un redattore di moda che ti disapprova. Il più delle volte trovi un attore o una celebrità che bevono un cocktail di moda vestiti in stile trasandato ricercato. L'ultima volta ho trovato uno di questi baretti, in una via laterale della Bowery, e mi sono seduta col mio compagno a bere una birra. Della compagnia che abbiamo incontrato vi racconterò fra un paio di settimane. Stay tuned, state in ascolto, ne vale la pena. 
(1 - continua) 

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