martedì 14 maggio 2013

LOST IN TRANSLATION A PORTO


Alba sull'Oceano 

Era passata una settimana. Una settimana da quando l'aereo era atterrato a Porto. Fino al giorno prima ero immersa nell'afa tropicale di metà febbraio, tra uno scroscio di pioggia e un altro, in una San Paolo di cui avevo già saudade. Ero salita sull'aereo ancora appicicaticcia di sudore e col sapore dell'ultimo Pao de Queijo in bocca, come nella poesia di D'Annunzio volevo "che il sapor di acqua natia", in questo caso un pane, rimanesse nelle mie papille più a lungo possibile.  Erano anni che non mi succedeva di vivere nella cara vecchia Europa e all'alba dal giorno successivo, vagamente disfatta dal fuso orario, avevo brindato con una tazza di caffè. 
La casa era bella, grande e con una vista su un parco che digradava verso l'oceano. Gli alberi spogli di febbraio facevano cornice all'acqua blu. Sotto, il rumore della via che aveva un nome bellissimo, Rua do Campo Alegre. Quella mattina il sole illuminava la sala piena di casse da sballare, mobili disposti alla rinfusa e polvere, molta polvere. Alla confusione si erano aggiunti i ponteggi degli imbianchini arrivati il giorno prima con una pazza voglia di fermarsi a lungo, vista la velocità con la quale dipingevano. I pennelli e i rulli passavano lenti sulle pareti, con una lentezza pari a quella di un indiano stanco. E un indiano stanco è veramente stanco. Arrivavo da un paese, anzi da una città, dove tutto era veloce, ritmato, confusionario. Ero atterrata in una città dove, al contrario, vigeva un ritmo languido e sonnecchiante a cui non mi sono mai abituata. Quella mattina ero persa nei miei pensieri, nelle incombenze classiche di un trasloco: sballare i piatti, ordinare i libri, decidere dove mettere le cose. Le stanze invase dalle valigie, la disperazione di vedere le pareti ancora sporche, i simpatici imbianchini presi dalla frenesia della chiacchiera rallegravano quegli istanti.
Ad un certo punto avevo deciso di andare a vedere che cosa stavano combinando quelli che avevo soprannominato Michelangelo e Direttore, uno perché dipingeva solo soffitti e l'altro perché aveva la tendenza a guardare quello che faceva Michelangelo, dandogli consigli e guardandosi bene dall'operare.  Si erano presentati, a dir la verità, ma i loro nomi si erano persi nella cacofonia dei suoni gutturali che uscivano dalle loro labbra. Sì, perché tra il brasiliano, lingua, e il portoghese, lingua, c'è un oceano di mezzo e si sente. Quanto uno è melodioso, cantato, ritmato, veloce, l'altro è secco, basso, gutturale, sembra tedesco, se va bene. Sotto al ponteggio guardavo i miei artisti della parete e cercavo il modo di capire quello che Michelangelo tentava di dirmi.  Mi stava spiegando qualcosa, ma i suoni che emetteva erano toltamente estranei al mio cervello, come se non parlassi portoghese. Ovvio, parlavo e capivo il brasiliano. Lui faceva gesti e ripeteva all'infinito la parola "picheleiro" (pron. pisceleiro). Ero attonita, per un italiana la prima parte della parola era chiara. Poi, Direttore ha avuto un'illuminazione, è sceso dal ponteggio e mi ha portata in bagno. Il mio sguardo era sgomento, vorrai mica che ti guardi mentre fai pipì, maniaco! Invece, con un gesto mi ha mostrato il rubinetto del lavandino che perdeva  copiose gocce d'acqua, e finalmente ho intuito quello che volevano dirmi lui e il suo socio. Mi sa che dovevo chiamare quello che fino ad una settimana prima definivo "o encanador", idraulico. Per essere sicura ho sfogliato il dizionario e, trovata la parola giusta, l'ho mostrata al Gatto e la Volpe, dopo la parola italiana si leggeva la traduzione "hidraulico". Con il dito ho mostrata la parola e i due mi hanno guardata sorridendo, a uno mancava un premolare, e mi hanno risposto in coro "Em Lisboa. Aqui no Porto chamase de picheleiro", "A Lisbona, qui a Porto si chiama picheleiro". E andiamo bene. Se non capisco loro che li vedo in faccia, come faccio a telefonare a un idraulico? Ho pensato sconsolata sedendomi sul divano. I due hanno ripreso a dipingere con la stessa alacrità e passione di poco prima. Io sono rimasta sul divano a pensare come avrei potuto cavarmela con la lingua. In effetti è stata dura la prima settimana, poi una volta abituata me la sono cavata alla grande e adesso riesco persino a fare l'imitazione di un portoghese e un brasiliano che rispondono al telefono.
Mentre ero lì seduta che consultavo il dizionario e scrivevo le frasi da dire all'idraulico, una terribile botta per la mia autostima, nel silenzio della casa all'improvviso ho sentito un miagolio. Un gatto? Ho fatto il  giro delle stanze alla ricerca della bestiola. Non c'era traccia di alcun felino. Ancora due, tre miagolii. Ero sul punto di optare per una gita in una clinica psichiatrica quando ho scoperto che  Direttore sottolineava tratti di conversazione coi versi del micio in calore. Più che di una clinica psichiatrica avevo bisogno di una boccata d'aria per allontanarmi dal momento surreale. 
Sole, brezza tiepida come solo a Porto a febbraio può accadere. Sono andata verso il mare e mi sono seduta in un bar sulla spiaggia, un libro in mano. Aria di primavera anche se era appena passato San Valentino, ho seguito con lo sguardo uno stormo di gabbiani che scendevano in picchiata sulle onde. Ecco, ho pensato, così trascorrerò il resto della giornata con buona pace di Michelangelo e Direttore. 

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