mercoledì 3 aprile 2013

QUATTRO PASSI TRA I PRATI A LAS VEGAS


“’twas betta when the mob was on charge”, traduzione letterale “era meglio quando ce stava la mafia”, mi ha detto Alex e ha aggiunto “lo so, non è una cosa bella da dire, ma è vero, Las Vegas era proprio meglio”. Mentre mi mi parlava, mi guardava nello specchietto retrovisore. Alex faceva, e forse ancora fa, il taxista, e spesso mi ha scarrozzata per la città quando vivevo a Las Vegas. Mi veniva a prendere e mi raccontava della vecchia Vegas, che lui conosceva così bene, mentre mi spostavo da un luogo all'altro per preparare una serie di articoli dedicati alla città. Lui si trovava lì da trentacinque anni. Arrivato da Detroit, dopo essere tornato dal Vietnam, fornito di una Bronze Star Medal, medaglia assegnata dall'esercito americano per atti di eroismo sul campo, e di nient'altro. Allora è salito su un taxi. Non ne è più sceso e conosce la città meglio del bilocale dove vive. I suoi erano i ricordi di una Las Vegas i cui attori principali si chiamavano Frank Sinatra, Dean Martin e venivano insieme a tutto il Rat Pack. "Potevi cenare accanto a loro mentre bevevano whiskey e fumavano sigari grandi come cannoni prima di salire sul palco" raccontava affascinato, mentre mi mostrava i resti del Frontier appena fatto saltare per far posto ad una nuova creatura di vetro e acciaio di Donald Trump. “Lo sai che gli spettacoli erano gratis? Non c’era il teatro chiuso come adesso, tu ti sedevi, cenavi e ti guardavi le Bluebell mezze nude sul palco. E seduto vicino a te c’era Sammy Davis jr. Tutto era quasi gratis, tra le slot machines e i tavoli di Craps. Ti facevano pagare poco la cena perché il vero guadagno veniva dal gioco. Adesso è tutto business per quegli smutandati che vedi lì”. Aveva gli occhi lucidi mentre indicava il turista tipo di Las Vegas: cibattine infradito, bermuda, t-shirt con immancabile scritta “What happens in Vegas, stays in Vegas”, cappelluccio e un bicchiere da un metro, dicasi un metro, di Margarita in mano. Li chiamava proprio smutandati, “Ma lo sai che a Las Vegas una volta c’era la gente in abito da sera o con giacca e cravatta per la strada? Le mance erano migliori.” Diceva tra il mesto e lo schifato mentre mi scaricava davanti al Flamingo, una delle ultime fortezze dei tempi d’oro. Le altre le hanno abbattute per far posto a Casinò più grandi, più belli, più ricchi, più pacchiani, più smutandati, come direbbe Alex. Ti aspetto? Mi ha chiesto. No, se non hai niente da fare entra con me. E felice ha mollato il taxi lì, sullo Strip, in un punto dove sapeva che non avrebbe avuto problemi dalla polizia. Era la prima volta che lo vedevo in piedi, nero, una montagna di morbida, ma solida ciccia, una polo bianca, un pantalone grigio. Elegante. Siamo entrati insieme e mi ha raccontato la storia di uno degli ultimi, se non dell'ultimo, alberghi storici di Las Vegas. Siamo entrati, la strana coppia in un mondo ripieno di strane coppie. 
La leggenda vuole che il Flamingo fosse un posto così elegante che anche gli addetti alle pulizie lavorassero in smoking. Lo ha fondato Benjamin “Bugsy” Siegel (sì, quel gangster), colui che intuì il potenziale di una minuscola cittadina, stazione di cambio cavalli, cresciuta sotto il sole cocente e desolato del deserto. In uno stato dove il gioco d’azzardo e le case chiuse erano legali. Il Flamingo, inaugurato nel 1946, è la vecchia gloria dello Strip. Molto è cambiato dai tempi di Bugsy, mi diceva Alex. Intanto la mafia ha meno potere, sono i manager adesso che gestiscono tutto e un personaggio come Bugsy non avrebbe più posto da queste parti. Se fosse vivo sarebbe emigrato da qualche altra parte, diceva Alex, ma non sapeva dove esattamente. Il Flamingo era davvero bello, Bugsy, Alex lo chiamava proprio per nome, come se lo avesse veramente conosciuto, aveva creato  un piccolo paradiso ad un piano con giardini interni e grande lusso. Stanze e suite erano frequentate dalla crema di Hollywood, della malavita e del bel mondo. Tutto era ovattato, elegante, irreale. La Bugsy Suite, quella dove alloggiava lui quando era in città, e conosciuta anche come Suite Presidenziale, aveva vetri a prova di proiettile e cinque vie di fuga. Bugsy era ossessionato dalla sicurezza e, come ogni gangster che si rispetti, viveva nel terrore di essere ucciso. "Pensa che invece lo hanno ammazzato a Palm Springs, a casa di Virginia Hill, l'attrice che era la sua fidanzata. Lo hanno imbottito di colpi, il suo corpo era irriconoscibile tanto era pieno di buchi mentre era a letto con lei. Alla faccia delle vie di fuga e dei vetri antiproiettile. Lo ha ucciso una scopata". Mi raccontava queste cose mentre eravamo ad un passo dal cippo che ricorda Bugsy Siegel situato accanto alla cappella per i matrimoninel puro stile diavolo e acqua santa che caratterizza questa città. Matrimonio col gangster, alcune coppie si fanno fotografare col busto di Bugsy che non assomiglia per niente a Warren Beatty, protagonista dell'omonimo film. Matrimonio e Bugsy, anacronismi immersi in un parco fantastico, quasi magico. Alex mi mostrava le piante rare, le fontane, i laghetti, i magnifici uccelli più o meno rari nel cuore del cubo di cemento che formava le stanze dell'albergo. Nei prati passeggiavano fenicotteri rosa, i flamingos simbolo dell’albergo, ibis cari agli antichi egizi, anatre di ogni tipo, rarissime varietà di cigni. C'era un silenzio irreale mentre Alex chiudeva gli occhi e inspirava il profumo dei fiori passeggiando sul ponticello giapponese. Sotto, le anatre sguazzavano intorno alle ninfee, starnazzavano, forse prendendosi gioco della strana coppia che attraversava il loro stagno. Silenzio bucolico e perfetto, irreale se si pensa che pochi metri fuori camminava un fiume di persone e scorreva il traffico indiavolato dello Strip. Per un istante mi sono dimenticata di essere a Las Vegas ed ho ascoltato le cascatelle d’acqua gorgogliare tra le piante; Alex e io ci siamo seduti su una panchina, abbiamo guardato il quadretto romantico degli immancabili sposi in posa per il fotografo e abbiamo teso l’orecchio per riconoscere il richiamo di un uccello. Alex era un appassionato di ornitologia e in pochi minuti mi ha nominato specie di cui ignoravo il nome, per non parlare dell'esistenza. Dopo esserci goduti questo attimo di quiete ed essere passati a salutare il vecchio Bugsy, davanti alla cappella dei matrimoni, la strana coppia è tornata al suo taxi e al caos indiavolato dello Strip. 

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