martedì 27 novembre 2012

UN PORTELLONE OSTINATO


Sulle montagne dell'Hymalaya, vicino a casa nostra
La storia di quando siamo arrivati in India l'ho già raccontata nel racconto "Welcome to India", cercatelo sul blog. 
L'impatto è stato forte. Siamo arrivati di notte, siamo sopravvisuti al girone dantesco che abbiamo  trovato all'uscita dell'aeroporto, e ci siamo avventurati nella città, nei suoi vialoni enormi, nelle sue stradine, in un labirinto sconosciuto. Siamo sopravvissuti ad una notte quasi insonne; il caldo, l'umido e le zanzare ci hanno tenuto svegli per ore. Non appena ci siamo assopiti, ci hanno svegliati per andare alla stazione. Quasi un viaggio nel viaggio, un'avventura nella città. Con l'automobile abbiamo solcato il traffico impazzito, nonostante l'ora che per noi sarebbe stata antelucana. Quell'alba livida, gonfia di pioggia di fine monsone, ci ha accolti e preparati al peggio. Nell'aria pesante c'era un  sovrapporsi di rumori: clacson suonati a distesa, piccoli risciò a motore che scoppiettavano lungo i viali, autobus sgangherati che ruggivano e vomitano diesel puzzolente. Il panorama era rallegrato da vacche che deambulavano magre e dignitose, da alberi asfittici che tentavano di vivere una loro vita. Rari uomini cavallo ansimavano davanti a portantine che ospitavano signore grasse e bambini pronti per la scuola.
Siamo passati per vicoletti brulicanti e vialoni scoppietanti di traffico e, poi, all'improvviso ci è apparsa  dell'India imperiale, quella degli Inglesi, delle Colonie. Davanti a noi si è stagliata l'imponente sagoma del Parlamento, la sua enorme piazza, un parco verde ben curato e al centro un arco di trionfo, a sottolineare la grandezza di una colonia britannica morta nell'agosto di molti anni prima.
Un ingorgo. Campanelli di bicicletta, clacson urlanti, voci e grida. L'auto si è fermata dietro ad un camion policromo decorato da disegni ed iscrizioni. Abbiamo sorriso alle scritte sul retro, una incitava "Use horn, pliss" , "Usate il clacson, par paccere", come se fosse necessario ricordare a questo popolo che il clacson esiste. Intorno a noi c'era gente che correva verso il lavoro o magari da uno scrivano, per raccontare a casa la nuova avventura cittadina, verso un ristorante di strada per rifocillarsi. Un sano casino indiano, che se non ci si è abituati si resta intronati per il resto della vita. Alla fine siamo arrivati alla stazione. Saliti sul treno ci aspettava un lungo viaggio tra le pianure e i campi di colza e mostarda. Un lungo viaggio che ci avrebbe portato in montagna, vicino al cantiere dove si lavorava per la costruzione di una diga. Ore e ore di viaggio stavano per essere la prospettiva della nostra giornata, ma ignoravamo quello che realmente ci aspettava. Lo avremmo scoperto solo dopo essere saliti sul treno e ce lo saremmo ricordati per tutta la vita. In quel momento però eravamo lì fuori dalla stazione, l'autista cercava di arrivare ai gradini per poterci scaricare. Suovava il clacson, eh già che novità, si sporgeva dal finestrino, urlava parole che potevano anche essere insulti tremendi per quanto ne sapevamo noi. Alla fine abbiamo conquistato i gradini. Fuori dall'auto ci aspettano pozzanghere profonde quanto il sacro Gange, che presto ci avrebbero costretto ad uno zigzag avventuroso con le nostre valige. 
Finalmente la Ambassador che si è fermata con un singhiozzo di resa davanti all'ingresso. Baldanzoso l'autista si è precipitato ad aprire il bagagliaio, ma questo non ne ha voluto sapere di aprisi. Le nostre valigie sono rimaste intrappolate mentre lui lottava con la maniglia. Il secondo tentativo è fallito, ha allora l'autista chiamato rinforzi. Nulla, le lamiere si sono serrate ostinate come a volerci dare un motivo per trattenerci in città a godere dell'atmosfera tranquilla e rilassata. Noi, però, non potevamo fermarci, dovevamo scappare, ci stavano aspettando da un'altra parte. E il treno prima o poi sarebbe partito e la nostra valigia era in trappola. Panico e preoccupazione ci accompagnavano insieme alla stanchezza e alla privazione di sonno. Le nostre narici, ignare dell'ansia che ci attanagliava, hanno fatto un giro turistico e hanno colto l'odore esotico dell'incenso, acceso tutte le mattine da ogni indiano che si rispetti per onorare gli Dei. Gli odori erano anche altri, era tutto così intenso inebriate, spiazzante. Mentre noi lasciavamo che i sensi avessero il sopravvento la lotta contro l'invincibile portellone continuava. La sua mascella d'acciaio serrava i denti contro i nostri averi, non li voleva mollare. Ancora un tentativo a vuoto e già una piccola folla si era riunita intorno al catorcio coloniale. Due, tre, quattro indiani si davano da fare, toccavano, trafficavano, con la mano aperta davano botte tremende sulla lamiera, ma l'aggeggio sembrava irremovibile, voleva rimanere chiuso. Ostinato, questo simpatico portellone. Alla fine è spuntato da chissà dove un cacciavite, uno dei torturatori del protellone lo brandiva come una spada, lo ha infilato, concentrato, nelle viti dei meccanismi del portellone. Gira, gira e le viti dei cardini che tenevano fermo il portellone lentamente si sono lasciate svitare. Il gruppetto si è fatto in quattro per aprirlo, come fosse una magnifica, gigantesca scatola di sardine. Finalmente il nostro bagaglio ha ritrovato la sua libertà. Tra sorrisi, pacche sulle spalle e frenetici namastee, è arrivato l'applauso del pubblico che oramai era diventato da stadio. Siamo saliti sul treno per un pelo, la locomotiva aveva cominciato quasi a muoversi, i nostri bagagli trasportati da alcuni spettatori molto soddisfatti della diversione mattutina. Welcome to India, again! 





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