martedì 16 ottobre 2012

UN'OSTRICA OSTINATA

I fondamentali in cucina: grembiule, coltello di ceramica, frusta, spatola, padella con fondo spesso.


Ho cominciato a cucinare tardi, quando sono andata a vivere da sola dopo i vent'anni. Non provengo da  una famiglia di cuoche, mia mamma cucina molto bene, ma non ha mai fatto la pasta o i tortellini in casa, ha sempre trovato un fantastico posto dove li facessero per lei. Quando vivevamo all'estero c'era sempre la bottega di questo o quell'altro immigrato che aveva il necessario per trasformare una cena normale in una cena sublime. Devo ammettere che mia mamma aveva, e ha, molta fantasia in cucina e ha sempre proposto ricette diverse e sfiziose alle sue cene con gli amici. Si è anche trovata a dover fare cene Kasher, Vegetariane, senza maiale, senza pesce, insomma è stata un'ottima casalinga brava ai fornelli. Le nonne erano entrambe un disastro dietro ai fuochi, avevano una piccola infilata di ricette che andavano alla grande, ma lì si fermavano. Celebri le squisite minestrine di dado di mia nonna paterna e il budino di cioccolato di mia nonna materna. Quel budino aveva un sapore particolare, un retrogusto che non sono mai riuscita a riprodurre, anche perché io non ho mai bruciato il budino sul fuoco, come si ostinava a fare la mia adorata nonna. Ah, i sapori dell'infanzia che ti mancano. La bisnonna paterna, però, era una grandissima cuoca, sopraffina, di quelle che basta che guardino negli occhi un ingrediente perché quello cominci a conversare con loro. Non l'ho mai conosciuta, ma i suoi piatti in famiglia sfiorano la leggenda. Era gelosa delle sue ricette e quando entrava in cucina tutti dovevano uscire. Quello col cibo era un dialogo con due soli partecipanti, quasi un monologo. Mia madre è riuscita a carpire alcune ricette della bisnonna, coccolandola in ogni modo, blandendola e minacciandola, alla fine ha ottenuto qualcosa in gran segreto. Io ho imparato a cucinare da sola, a istinto, ho bruciato svariati sughi, ho fatto delle paste sfoglie disgustorse, ho servito polli semi crudi sostenendo, per orgoglio ferito, che la ricetta li voleva proprio così, ho presentato spaghetti alla carbonara non commestibili (vedi Due Spaghi a Londra nel blog). Però ce l'ho fatta, sono riuscita a servire cene gradevoli quasi subito. Forse, per una botta di fortuna per me inconsueta, qualche gene della nonna bis è finito tra i miei e saltella allegramente quando vede una cucina. Comunque, ad un certo punto della mia carriera culinaria ho deciso di andare a scuola di cucina, perché come in tutte le cose bisogna imparare la tecnica e le basi per spiccare il volo. 
Mi trovavo all'estero, a San Paolo,  passeggiavo tranquilla quando mi sono imbattuta in una deliziosa villetta degna di Hansel e Gretel. In quella casetta di pan di zenzero, stretta tra i grattacieli della via, si trovava una magnifica scuola di cucina. Tra gli insegnanti c'erano anche gli chef più alla moda e quotati della città. E' stata la mia seconda casa per tutti gli anni che ho vissuto lì e ho imparato a fare il pane, i croissant e i biscottini da uno dei grandi pasticceri della città; i dolci, di qualsiasi tipo, per me non hanno più segreti grazie alla bravura della mia insegnante Mara Mello (trovate la ricetta dei tartufi di cioccolato che mi ha insegnato più indietro nel blog); lì ho imparato a fare un uovo fritto da manuale, ma anche una Terrine de Foie Gras da urlo e, un intero menù degno di una Principessa (in questo caso Grace di Monaco, come insegnante quello che era stato il suo chef personale). Mi sono divertita come una pazza, ho infilato le mani in pasta, mi sono sporcata di cioccolato, ho steso focacce, ho girato salse, ho fatto impazzire una maionese che ho imparato a recuperare; ho tagliato Sushi, ho affettato arrosti cotti da me, ho cucinato con qualsiasi condizione atmosferica, con qualsiasi umore, durante la stagione delle piogge, d'estate, ma durante il Carnevale no, perché in Brasile il Carnevale è sacro e tutto si ferma.  Sono stata un'allieva modello, assidua e studiosa, forse un filo secchiona, ma c'è un episodio che ha fatto scalpore e ha marcato la mia permanenza nella scuola.
Era una delle prime lezioni dal titolo accattivante: Tecniche e Combinazioni di Sapori. Una di quelle lezioni che formano la base della tua esperienza culinaria, che ti insegnano la differenza tra cucina casalinga e cucina professionale. Questa era senz'altro ispirata alle lezioni del Grand Diplome del Cordon Bleu, la Scuola di cucina con la s maiuscola, visto che una delle insegnanti proprietarie era diplomata lì.  Descrivo fedelmente quanto è successo.
L'aula era sempre la stessa: grande e spaziosa, al centro la grande cucina con gli sgabelli intorno e il piano per appoggiare il quaderno degli appunti. Quel giorno, in cattedra, e cioè dietro alle grandi bocche di fuoco, quei fornelli professionali che mi hanno sempre fatto tanta invidia, c'erano la direttrice con uno chef, il nome ricamato sulla giacca che non svelerò. Uno chef emergente, che però aveva già al suo attivo un paio di ristoranti di successo a suo nome. Posso senza dubbio dire che era un vero genio della cucina, nonché un gran bel pezzo di gnocco. Alto e sexy, magro, un tatuaggio sull'avambraccio, la barba rossiccia che non vedeva il rasoio da almeno tre giorni e senz'altro fornito di una tartaruga da mettere in mostra dietro al grembiule. La mia amica ha commentato qualcosa tipo "A letto senza cena, ma col dessert", un'affermazione che mi ha trovata perfettamente d'accordo. Quel giorno eravamo frizzantine, c'è poco da dire. Lui ha iniziato la lezione parlando di abbinamenti, di ingredienti che andavano particolarmente d'accordo, di altri che si respingevano. Noi abbiamo preso appunti come diligenti scolarette e abbiamo inframezzato le pause con commenti piccanti su cosa avremmo voluto fare con lo chef dopo la lezione. Dalle nostre labbra uscivano cose tipo "noi facciamo parte degli ingredienti che attraggono", "fai di me il tuo ammazza caffé" e eleganti amenità simili. Rigorosamente in italiano. Poi è arrivato il momento di lavorare l'ingrediente protagonista del primo piatto. Le lezioni si dividevano in due: prima la dimostrazione dello chef e, poi,  la pratica ai fornelli personali disposti intorno all'aula con supervisione dello chef medesimo. Quel giorno il primo piatto era un'ostrica cruda con un abbinamento di sapori particolari. Lo chef ha mostrato come aprire l'ostrica: bisogna trovare il "muscolo" che sta nella parte corta e piccola della conchiglia, appoggiare il coltellino, inserirlo, recidere il muscolo con un colpo secco e aprire le valve facendo attenzione a non disperdere il liquido. Facile. Mica tanto. Ogni allievo doveva aprire la sua ostrica e insaporirla con le quantità stabilite di ingredienti. I primi allievi cominciano, apertura perfetta, qualche intoppo, ordinaria amministrazione. Io sono tra gli ultimi, subito prima della mia amica. Lo chef è accanto a me. Coltellino, ostrica, legamento, apro con successo. Non mi pare vero. Lo chef mi sorride, amabile e un po' ammiccante annuisce. E' decisamente attraente e io sorrido timidamente, ma non troppo. E' il turno della mia amica, infila il guanto di maglia di ferro, posa delicatamente l'ostrica sul palmo armato, poggia il coltellino sull'ostrica e si appresta a eseguire l'apertura. Lo chef si avvicina, si avvicina molto, lei sente il calore del suo corpo vicino al suo, lo ha fatto con tutti. Intendo avvicinarsi, ma non così vicino. Lei si agita, il coltellino scappa, scivola e va a rigare la parte superiore del guscio. L'ostrica, avvertita della fine imminente, si chiude e non accenna a rilassarsi. La mia amica si gira, guarda lo chef, lui dice: prendine un'altra. Lei ne prende un'altra, lui si riposiziona vicino a lei che riprova. Niente, fallisce. Lui si mette dietro di lei e guida la sua mano con la sua per spiegale come si fa. Annuisce, visibilmente agitata per via del contatto fisico. Prende un'altra ostrica. Riprova. Fallisce. "Brutta bastarda di un'ostrica", dice a mezza voce. La sento e sorrido. Lei è nervosa, perché non riesce ad aprire l'ostrica e perché  lo chef è troppo vicino. "Non essere nervosa, in cucina ci vuole pazienza" dice lui piano. Lo dice in italiano perfetto, lei si gira e arrossisce con violenza, lo guarda interrogativa "E sono libero stasera per cena", sorride lui ammiccando a tutte e due. Io mi vergogno come una ladra, nessuno ha capito cosa sia successo. Lo chef parla italiano. Dall'agitazione la mia amica fa una leggera pressione sull'ostrica, trova il punto esatto e finalmente la brutta bastarda si apre. Lui le mette una mano sulla spalla. Brava, in cucina ci vuole pazienza. Lei quasi sviene. Lui è un po' lumacone, giusto un po'.

Come è andata a finire? Ma cosa avete capito... ci ha invitate al ristorante coi nostri mariti e siamo diventati amici. E alla lezione successiva ci ha presentato suo figlio.
Certo, resta sempre un gran bel pezzo di gnocco.


P.S. Lo chef parlava perfettamente l'italiano perché ha lavorato per due anni a Milano, nelle cucine di uno dei nostri grandi chef. Posso tranquillamente affermare che, oltre ad essere un grande gnocco, è anche un grande chef a sua volta: è nella classifica dei primi venti al mondo.



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