martedì 30 ottobre 2012

HALLOWEEN A FERRAGOSTO

Era estate, avevamo si e no quindici anni, e dovevamo passare le serate senza lasciare il paese. Non era facile divertirsi, bisognava inventare qualcosa di diverso da fare ogni sera. Cose che dovevano finire a mezzanotte, all'epoca ora del coprifuoco generale per tutti i quindicenni. C'era un ragazzo, oggi è uno stimato professore universitario, che era il deus ex machina di tutti i danni che facevamo per le vie del piccolo paese rivierasco. Una mente sopraffina, ovviamente rimasta tale visto il ruolo nel formare le nuove generazioni, una mente intricata, una mente diabolica. Aveva studiato un sistema per fare divertire tutti, in modo economico e piuttosto molesto. Un giochetto fatto di niente: ci dovevamo mettere in fila indiana e camminare lungo la passeggiata dove c'erano persone di ogni età, sesso, condizione economica e credo politico. Tutti, insomma, ma proprio tutti, gli ospiti della ridente località balneare che passavano la serata leccando il gelato, chiacchierando e, soprattutto, passeggiando. Allora, di solito noi eravamo una decina in fila indiana, ogni persona che incontravamo meritava una nostro grugnito, ma non emettevamo il verso del maiale dicevamo semplicemente GRU. Alcuni ci guardavano sospettosi, altri sorridevano, altri, al quinto GRU di fila rispondevano. Alla fine della fila la probabilità che qualche passante dicesse GRU per primo era altissima, allora entrava in azione l'ultimo. L'ultimo era ovviamente il professore, che invece di dire GRU urlava  a pieni polmoni: TAAAACCCCOOOO. Traumatizzando a vita il povero passante. Ridevamo come pazzi, e anche a lungo. Vedo che tutti voi state guardando lo schermo increduli. Capisco, ma avevamo quindici anni ed eravamo pericolosamente in bilico sul baratro dell'idiozia da nullafacenti. Pensate a chi ha inventato il gioco, oggi potrebbe essere il professore di vostro fratello, figlio, nipote, figlioccio. Non dirò nemmeno sotto tortura dove insegna, posso solo certificare che è un docente di fama internazionale e che su di lui poggiano svariati pilastri del mondo occidentale. Le nostre serate trascorrevano così, con questi geniali giochi, cazzeggi vari e divertissements che rasentavano la demenza cronica. Robe tipo gara dello sputo più lungo, tiro di sassi dentro al mare o, a pensarci adesso mi vengono i brividi, gara coi motorini sul rettilineo. Due motorini si fronteggiavano a una distanza stabilita, davano il massimo del gas e poi puntavano uno verso l'altro, dovevano scartare più vicino possibile prima dello scontro definitivo. Un gioco molto, molto intelligente. Non lo ha inventato il professore, ma uno che oggi fa il meccanico. Occhio a chi affidate la macchina.
E poi è arrivata la scoperta. La villa disabitata. Quella villa era lì da sempre, disabitata da sempre, piena di rovi da sempre, ma noi l'abbiamo scoperta l'estate dei nostri quindici anni, complice un buco nella rete. Dentro banchettavano topi grandi come furetti, serpenti lunghi come anaconda, cinguettavano uccelli di vario tipo e di notte, nel buio più fondo, si sentivano strani rumori. Magnifico. Abbiamo timidamente cominciato a giocare a nascondino nelle zone più illuminate, quelle vicino ai lampioni della strada. Entravamo dal buco e ci sparpagliavamo, il gioco si chiamava Nascondino Mortale. Mortale non si sa perché, ma "fa gnente". Dopo un po' siamo passati a rincorrerci nei vialetti ululando come forsennati. E una sera abbiamo scoperto che c'era un passaggio per entrare dentro alla villa. Chiamarla villa è riduttivo, era un palazzo principesco. Una costruzione enorme con nascondigli, anfratti, segreti. Ci siamo procurati una torcia e abbiamo cominciato ad esplorare l'interno. I grandi saloni vuoti, le stanze piene di erbacce e calcinacci, il parquet che cigolava sotto i nostri passi, i topi che scappavano disturbati dalla nostra luce. Così trascorrevamo il nostro tempo dopo cena, inquieti e felici. Poi, una notte senza luna la torcia si è spenta, le batterie forse si erano scaricate. Le nostre voci si sono accavallate, chi sosteneva che fosse meglio non muoversi, altri che peroravano la causa del "fuggiamo a gambe levate che sono un filo agitato", alcuni ridacchiavano nervosi.  All'improvviso è calato il silenzio, ed è stato proprio allora che abbiamo sentito una voce flebile accompagnata da un chiarore lattiginoso, sembrava la voce di  un bambino che piangeva piano. Poi un rumore lieve, una sorta di fruscio, e un'ombra bianca che si muoveva veloce. Qualcosa ha sfiorato la guancia della mia amica e lei ha cominciato ad urlare, fortissimo. E anche noi, presi dal panico, abbiamo urlato e siamo scappati verso l'uscita. A perdifiato tra i rovi, i tronchi, le pietre. Fuori, fuori. Una corsa cieca, un passaggio veloce nella rete metallica, ci siamo trovati tutti in salvo sul marciapiede illuminato. Unico assente il professore, che sta ridendo ancora adesso.

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