martedì 18 settembre 2012

PAUSA PRANZO A SALVADOR

Il Pelourinho al tramonto
Era alta, più alta di me di una buona spanna e io non sono proprio una nanerottola. Era larga come un comò della nonna, di quelli un po' panciuti e barocchi. La pelle era del colore della liquirizia e il vestito bianco, largo e pieno di volant, aveva una fusciacca giallo sole. In testa portava un foulard annodato con un fiocco sopra la fronte. Davanti a lei stavano due enormi pentoloni pieni di olio, uno era di colore rossastro con venature aranciate, l'olio di Dendé (con l'accento circonflesso sulla prima e), l'altro giallo paglierino, forse di girasole, meglio non sapere. Tutto quell'armamentario e la donna erano un notevole ingombro nel piccolo viottolo acciottolato che saliva su per la collina nel cuore del Pelourinho. Un ombrellone bianco completava il quadro creando l'impressione di un tutt'uno con la Bahiana. Un cartello di cartone dipinto comunicava "Fritos da Carminia". Su un tavolino stavano svariati contenitori di plastica, di quelli che servono per la conservazione degli alimenti,  grandi, più grandi della norma. Dentro c'erano delle creme, delle salse, dei pesci, della carne tritata, del pollo cotto in filetti, delle verdure tritate, delle paste dalla consistenza strana. C'era la coda. Una coda lunga, di turisti e locali. La donna sorrideva e con le mani preparava velocemente delle polpette, grosse come un piccolo limone. Impastava e arrotolava, poi con i palmi delle mani dava una forma a crocchetta quasi ovale. Li immergeva nell'olio rosso, li seguiva con gli occhi mentre friggevano, grosse bolle attorno alla crocchetta la doravano e la insaporivano. Poi scolava, raccogliendo la crocchetta con un schiumarola. Buttava, letteralmente, le crocchette pronte su carta assorbente bianca, e ne infilava subito delle altre nell'olio. Poi ne prendeva una nella mano sulla quale aveva poggiato un foglio di carta oleata, la apriva a metà, prendeva una salsa rossa punteggiata di verde (vatapà) e ce la metteva dentro, infine decorava con un gamberetto secco. L'acarajé era pronto. L'avventore pagava e si sedeva su un banchetto fatto con le assi dei ponteggi e gustava la sua polpetta di fagioli, con vatapà e gamberetto secco. Intanto la Bahiana prendeva un rettangolo finissimo di pasta, lo metteva sul piano di lavoro. Le sue mani volavano sugli ingredienti, cuori di palma tagliati a rondelle, dadini di pomodoro, coriandolo tritato fine. Poi passava al secondo rettangolo, carne trita, catupiry (formaggio) e prezzemolo. Copriva tutte e due i rettangoli con altri rettangoli di pasta, chiudeva bene i bordi, creando così dei ravioli giganti. Posava delicatamente i ripieni dentro l'olio giallo che cominciava a bollire intorno alla pasta, che si gonfiava in tante bolle che decoravano la superficie. La bahiana allora saggiava la cottura, girava i ripieni, quando erano perfettamente dorati li scolava sulla carta assorbente e, ancora, roventi passava i Pastéis ai clienti. Loro si mettevano su un angolo del tavolo dove c'erano le salse: cipolla e aceto oppure pomodoro e prezzemolo. Addentavano il Pastel, mettevano un cucchiano di salsa e prendevano un altro boccone, indifferenti al calore che si sprigionava dal ripieno. La fila aumentava, la Bahiana friggeva, i primi della fila addentavano i loro Acarajé o i loro Pastéis, gli ultimi salivavano. Alcuni chiacchieravano, ridevano, chiedevano una birra alla Bahiana che scuoteva la testa. Niente birra, puoi andare a quel banchetto laggiù. Poco lontano un'altra Bahiana, questa volta piccola come una bambola, la pelle color latte macchiato, lo stesso vestito dell'altra, ma in versione mignon, stava seduta su uno sgabello davanti ad un grosso frigo termico chiuso da un coperchio. Dietro di lei su un basso tavolino bicchieri di carta, lime, un sacchetto di zucchero, un contenitore di inox, un pestello e un altro enorme frigo. Allora i più arditi si avvicinavano e chiedevano una birra o una coca, lei apriva il frigo, colmo di ghiaccio e contenitori refrigeranti, e tirava fuori le bibite. Alcuni chiedevano una caipirinha, allora lei tagliava due lime in quattro, metteva lo zucchero, schiacciava col pestello, trasferiva tutto in un bicchiere di carta, apriva il frigo, prendeva un manata di ghiaccio da un sacchetto e, alla fine, versava la cachaça, di quella da pochi soldi. Il nostro turno stava arrivando, allora ci siamo divisi, uno ha ordinato un Pastel de Carne e un Acarajé, l'altro una birra e una Caipirinha. Poi beati ci siamo goduti il l'avanti e indietro della via seduti sulla panca fatta di assi da muratore.

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