lunedì 30 aprile 2012

UNA CASA IN RIVA AL MARE IN URUGUAY

Vista dalla finestra dello studio 
Soffia il vento, una brezza tesa e fresca che increspa di onde il mare dai colori invernali, quei blu profondi e qui verdi un po' fangosi tipici delle mareggiate della stagione fredda. Il cielo è privo di nuvole, turchese, brillante e trasparente grazie al vento che libera l'aria da qualsiasi impurità. La sabbia è calda come si conviene alla stagione, ma sdraiarsi al sole è un'impresa ciclopica per chi non è abituato a questo clima. L'Uruguay è uno strano posto per andare in vacanza, soprattutto per noi abituati al mediterraneo le sue coste battute dal vento e le sue acque ghiacciate sono difficili da associare alla vacanza di mare. Eppure tutti i sudamericani, persino i brasiliani che hanno una costa favolosa, adorano spingersi sulle spiagge lunghe e sabbiose uruguaiane, e soprattutto di Punta del Este  Tanto che da qualche anno è diventata una moda per molti europei trascorrere le vacanze invernali nella Porto Cervo dell'emisfero australe. Quando vivevo in questa parte di mondo ho passato anche io parte delle mie vacanze, nella cittadina chic e mondana, passeggiando tra ville hollywoodiane e case un po' sgarrupate ma piene di fascino, alberghi di design e passeggiate sulla battigia, tra cene allo yacht club e empanadas addentate prima di una grigliata sulla spiaggia. Nel contrasto tipico dell'America Latina, sempre in bilico tra chic sontuoso e campagna ruspante. Ho molto amato le lunghe spiagge di sabbia bianca, costeggiate dalle dune e da una natura selvaggia, ho adorato il repentino cambio di colori del cielo e la luce brillante e favolosa; ho apprezzato molto meno l'acqua la cui temperatura vira dal freddo al ghiacciato e le sue notti nordiche. E' stato bello visitare Punta del Este, vale sempre la pena conoscere un posto nuovo, ma non me ne sono mai innamorata. Io e questa città sull'oceano non abbiamo molto in comune. Se devo trovare spiagge battute dal vento, lunghe e sabbiose, con l'acqua fredda e i colori cangianti preferisco il mio amatissimo mare del nord, tra il Belgio e la Gran Bretagna su, su fino alla Danimarca.
Un'estate, non vivevamo già più a Buenos Aires, i nostri amici ci hanno invitato a trascorrere con loro le vacanze estive, che erano quelle invernali per noi. Tutti insieme abbiamo affittato una casa sul mare, in un villaggio un po' lontano da Punta del Este e le cui atmosfere erano decisamente più rilassate. Si chiamava, anzi si chiama la Pedrera. All'epoca era un pugno di case originali lungo la spiaggia, un paio (letteralmente) di ristoranti vista mare, una discoteca scalcinata e molto spirito hippy. La casa che abbiamo affittato era di un artitista, forse un pittore, più probabilmente uno scultore vista la presenza di statue, statuine, oggetti forgiati che decoravano gli interni e gli esterni. Stava in cima ad una duna ed era una casa bassa, degli anni quaranta circa, con un fascino smaccato e fantastico e che aveva una struttura e una pianta particolari. Era lunga, lunga e finiva con una stanza che le dava una sorta di forma ad elle, accanto a questa un garage che rinforzava l'idea della decima lettera dell'alfabeto. Ogni stanza si incastrava nell'altra senza soluzione di continuità, si partiva da quella che era studio, veranda, sala da pranzo, una zona divisa in due parti le cui enormi finestre guardavano l'oceano sempre in agitazione. Lì si trovava una grande libreria colma di testi, oggetti trovati sulla spiaggia, sculture senz'altro del padrone di casa, un tavolo da pranzo di legno lucido e smangiato dal tempo, qualche puf, sedie e poltrone. Le piastrelle nere e beige davano continuità alla casa, e non vi era stanza che non le avesse, compreso il piccolo studio accanto alla stanza con la libreria con i suoi ninnoli di vetro, metallo e cristallo appesi alle finestre che rilucevano nella luce del tramonto creando effetti magici. Le tende di canniccio e la libreria bassa conferivano un'aria di casa perfetta a questa stanza che una di noi aveva scelto come propria. Allora aveva steso a terra un futon sottile, qualche lenzuolo e qualche cuscino e si era creata la sua cuccia, un'alcova deliziosa e romantica. Girando le spalle al mare c'era quello che pomposamente un borghese avrebbe chiamato il salotto. Divani di pelle, corna di animali, poltrone rivestite di stoffe di cotone colorato, quadri astratti, figurativi, un po' sporchi, qualche mensola con libri e ninnoli, questo caos eclettico era il paradiso dei bambini che qui passavano ore e ore a guardare, toccare, annusare.  I piccoli dividevano la stanza seguente. Lì c'erano due lettini, più un terzo che per una baby sitter eventuale, era una stanza spartana, spoglia, priva di oggetti e con un solo quadro fatto di stoffa alle pareti. Seguiva la camera padronale, un letto matrimoniale ancora più monacale ed essenziale, quasi a voler sottolineare il pudore della vita privata in contrasto con quella pubblica, rutilante di cose, oggetti e sensazioni. In fondo a tutto, la cucina con la sua finestra che dava sul retro, sotto la quale si trovava un acquaio di quelli di una volta, di pietra e cemento col rubinetto cromato tutto spellato, un piano di appoggio anch'esso di pietra, sotto l'acquaio tutto il necessario per la pulizia della casa, la spazzatura, le palette, gli stracci; tanti scaffali aperti fungevano da dispensa e poi un frigo e una cucina economica, non di quelle a carbone ma con la bombola del gas. Chiudeva l'infilata la nostra stanza, due lettini monacali come tutto il resto delle stanze, senza nemmeno un quadro. Evidentemente doveva ancora essere dipinto il quadro di quella stanza.
Trascorrevamo le nostra giornate tra la spiaggia e il giardino, mangiando insalate di carote, barbabietola cruda e maionese, a cui si alternava quella di lattuga, pinoli, pomodori secchi e rucola. Ogni tanto preparavamo pasta aglio, olio e peperoncino, o quella con il sugo di pomodori crudi a seconda dell'umore e della disponibilità del mercato potevamo anche lanciarci in manicaretti più eleborati come gli spaghetti ai frutti di mare. Arrivando dall'Argentina, e trovandoci in Uruguay, non poteva mancare l'asado, di pesce visto che eravamo al mare, cucinato nella grande parilla che si trovava accanto alla nostra stanza priva di fronzoli e che spesso prendeva l'odore di ciò che avevamo cucinato, costringendoci a notti di finestra aperte e coperte ben tirate sulla testa. Le nostre serate trascorrevano in giardino e nel patio con una birra o del vino finché non eravamo sfiniti, le lingue spesse dalle chiacchiere e la testa leggera per via dell'alcool e delle troppe sigarette. A volte preferivamo passare la serata in salotto per stare un po' più caldi. Una notte, eravamo appena tornati  da una gita a Punta del Este, ci siamo rimpinzati di panini al prosciutto e formaggio, tutto tirato fuori direttamente dal frigo, annaffiandoli con birra fredda. Io mi sono rimpinzata più degli altri, un panino o due in più, una vera vergogna, col risultato che sono stata male nei tre giorni successivi. Non potenvo sentire l'odore del cibo, figuriamoci mangiarlo o annaffiarlo con qualsiasi cosa che non fosse acqua, possibilmente calda. Senz'altro è stata la mia ingordigia a rovinarmi quei tre giorni perché tutti gli altri stavano benissimo o forse la birra ghiacciata tracannata alla canna ha fatto il suo dovere.
Ogni tanto ci spingevamo qualche metro a destra, salivamo un paio di gradini e ci accomodavamo ad uno dei tavoli di legno grezzo del ristorante della porta accanto, eletto a nostra sala da pranzo preferita.  Non avevamo la più pallida idea di come si mangiasse e dove fosse l'altro. Chiacchierando coi padroni, nostri coetanei, sgranocchiavamo gamberetti fritti, tutti interi, carapace, teste e code comprese, bevevamo birra ghiacciata e aspettavamo il tramonto per ordinare i calamari alla griglia.  Questo era il menu che poteva variare in questo senso: sotto il calamari poteva esserci o non esserci il riso. Calato il sole facevamo notte conversando liberi da ogni freno dopo una bottiglia di bianco sorseggiata con lentezza guardando il mare, nero come l'inchiostro, ma illuminato da uno spicchio di luna. La notte era spesso fresca e allora ci avvolgevamo in un maglione di morbida lana, ma i piedi rimanevano gelati dentro alle infradito di gomma. Restavano solo i grilli a farci compagnia dopo che i bambini erano andati a dormire. E noi in silenzio, tutti insieme seduti sul ciglio della duna, ci sentivamo veramente in vacanza e solidi nella nostra amicizia.

P.S. Pare che la casa non esista più e che la Pedrera assomigli molto a Punta del Este. 

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