lunedì 16 aprile 2012

POLLO PER TUTTI A HOTHOT

Il cinese è una lingua difficile. Iniziare con una banalità è sempre meglio, il racconto può solo migliorare, però è vero il cinese non è per niente un lingua facile. Parlo svariate lingue, alcune imparate sul campo e dimenticate subito dopo l'abbandono del campo. Per esempio il turco. Ho dei vaghi ricordi di come si faccia la spesa nella lingua di Istanbul, ogni tanto la nebbia si alza sulle frasi necessarie per ordinare al ristorante o per contrattare un tappeto con un venditore. A pensarci bene riesco ad arrivare a bofonchiare qualche parola di turco sforzandomi un pochino, altre lingue scorrono lisce come l'olio dopo averle imparate sur place. Col cinese è stata tutta un'altra storia. Le lingue tonali non sono facilissime per noi occidentali e bisogna andare a scuola per riuscire a dire "buongiorno" nel modo giusto, cioè senza che qualcosa si frapponga tra la cortesia e l'insulto. Non sono per niente rare le volte in cui la lingua scivola e, via, si parte con le scemenze. Ricordo perfettamente una volta in un mercato, eravamo un gruppetto e stavamo facendo la spesa, ho visto una cosa che mi interessava, un oggetto di cui ho un vago ricordo, l'ho indicato e ho usato la parola "questo", seguito dalla domanda  "quanto costa?", ovviamente in cinese; ecco, subito dopo i miei interlocutori hanno cominciato a ridere, anzi hanno cominciato a rotolarsi per terra dal ridere. Probabilmente avevo detto qualcosa che assomigliava a "mi metto nuda davanti a voi e ballo la rumba", altrimenti non mi spiego il motivo di tanta ilarità; temo ci siano rimasti malissimo che io non lo abbia fatto, denudarmi e ballare intendo. Dopo svariati minuti e molte risate dopo sono comunque riuscita a comprare l'oggetto. La volta successiva mi sono vendicata esordendo con un "Ciao Pistola, ti butta bene?", i miei amici del banchetto hanno riso nel riconoscermi ignari di essere stati insultati. D'accordo, non si fa, è maleducato dare del pistola a qualcuono che non capisce, ma non ho saputo resistere alla piccola, futile vendetta. Per questo motivo con le mie amiche usavamo pochissimo il cinese nonostante provassimo come pazze ad imparare la lingua. Forse se mi fossi fermata più a lungo avrei imparato a dire "come stai?" senza suscitare l'ilarità dei miei interlocutori.
I primi tempi fare la spesa, ordinare al ristorante o al banchetto lungo la strada non erano operazioni semplici, prima di tutto perché vivevamo in una zona rurale e poco avvezza alle lingue straniere e, poi, perché la Cina di allora (1998) non era la Cina di oggi, un po' più aperta verso l'Occidente. In quel periodo, comunque, c'erano momenti memorabili nei quali, noi occidentali, ci industriavamo con gesti al limite della maleducazione pur di farci capire senza farci ridere troppo dietro. Ecco alcuni esempi di cinese gestato (cioè, ci si esprime senza parole): il gesto dell'ombrello su entrambe le braccia, seguito dal gesto delle forbici per far capire che volavamo una manica più lunga o più corta; o facciato (ovvero ci si esprime solo con la faccia): guance gonfie e labbra che soffiano per comprare un pallone (qui si può aggiungere anche il gesto di tirare un calcio) o dei palloncini per una festa (qui è facoltativo fingere ilarità). Ecco, ricordo esattamente quella volta al mercato quando volevo l'anatra intera aperta a libro e schiacciata  con il batticarne. Ho provato a fare segno di "usa la mannaia e appiattisci 'sto uccello", ma è stato inutile. Allora, in pieno mercato, ho preso un foglio di giornale, l'ho ripiegato a forma di qualcosa che potesse sembrare un uccello, l'ho messo a terra e ho comiciato a saltarci sopra come una forsennata. Sembravo pazza, ma che ci crediate o no, quando ho tirato su la poltiglia di carta, la mia anatra è stata aperta a libro e schiacciata con il batticarne. Miracoli dell'espressività italiana e intelligenza intuitiva cinese.
Dopo qualche mese che mi ero trasferita abbiamo deciso di fare un viaggetto tra ragazze. Ci siamo messe insieme, un gruppetto piccolo ma assortito: una mamma con la figlia piccolissima (3 anni), una mamma senza figlia, una nonna (della treene) e una ragazza senza marito al seguito. Un variegato e divertente mondo di età. Abbiamo affittato un pulmino e siamo partite alla volta della Mongolia Interna Cinese, il posto per indenderci dove Gengis Khan e il suo esercito sfrecciavano sui loro cavalli cercando di conquistare il mondo conosciuto e dove c'è la tomba del celebre condottiero mongolo. Una delusione terribile. Per delusione terribile, intendo la tomba del condottiero, che è un cumulo di terra senza arte né parte, brullo e privo di qualsiasi fascino, lui non l'ho conosciuto. Tutt'altra cosa alcuni angoli della capitale della Regione: Hothot (non si pronucia come l'inglese hot=caldo con la o rotonda, bensì qualcosa come Huohot con le due acca molto, molto aspirate). Ce la siamo spassata tra noi donne di ogni età, sul nostro pulmino abbiamo corso lungo la campagna brulla, desolata e asciutta come un deserto, punteggiata qua e là da quello che rimaneva della torrette di avvistamento della vera Grande Muraglia, niente a che vedere con quella patinata vicino a Pechino (anzi, Beijing come si dovrebbe dire); siamo salite e scese dall'auto sotto un sole bruciante, abbiamo scattato fotografie e mangiato cose strane, di cui ignoriamo ancora oggi la provenienza, nel senso che forse abbiamo mangiato grilli fritti e non ce ne siamo accorte, tanto non sapevamo leggere i cartelli, e l'autista del pulmino parlava a malapena l'inglese necessario a farsi capire. Siamo, tra le altre cose, sopravvissute alle profferte di sesso a pagamento arrivate nottetempo nelle nostre stanze, lì sì che l'inglese veniva utilizzato con proprietà, ma la risposta non veniva mai capita a fondo. Infatti, il telefono continuava a squillare finché noi, esasperate, non staccavamo la cornetta chiudendola in un cassetto. Può essere divertente immaginare una voce sensuale nella notte che dice "Sex, good sex cheap, cheap" (sesso, buon sesso, economico economico) e all'altro capo del filo c'è una donna eterosessuale che dorme da un paio d'ore. Noi non ci siamo molto divertite al momento di dover riprendere sonno nel letto dell'albergo, in puro design regime comunista: spartano, funzionale e un filino scomodo. Comunque, siamo sopravvissute a tutto, anche ai pasti. A mezzogiorno i banchetti che punteggiavano ogni angolo della città e, meraviglia, della campagna erano la nostra ancora di salvezza. Una sera siamo andate in un ristorante dove servivano solo fonduta mongola, e lì è stato semplicissimo ordinare. Un'altra sera siamo andate in un ristorante elegantissimo, grandissimo e in un orario poco ortodosso: le 19, ora di cena per una bambina di tre anni, ma non per il resto dell'umanità. Siamo entrate in un immenso salone arredato con grande gusto: tende, pareti, tovaglie tutti declinati nei toni del crema e blu; tanti i tavoli rotondi, in Cina era diffcilissimo trovare tavoli quadrati allora, non so se oggi sia diverso, e le sedie rivestite di seta blu con lo schienale alto. Uno spettacolo vuoto e silenzioso, nessun avventore a parte noi. Si sono avvicinate cinque cameriere che, con gentilezza ed eleganza, ci hanno accompagnate al tavolo, camminavano davanti a noi, piccole figure vestite di seta cobalto con disegni dorati. Ognuna ha preso la nostra giacca, l'ha messa sullo schienale e l'ha coperta con uno speciale rivestimento zippato per proteggerla da eventuali macchie. Ci hanno portato il menu, un menu grande come un lenzuolo, ricco come solo un menu cinese sa essere, pieno di piatti, sfizi, delicatezze, specialità. Un menu rigorosamente scritto in ideogrammi, coi prezzi in ideogrammi, con le spiegazioni esclusivamente in ideogrammi. Insomma illeggibile per noi che non leggevamo neanche il basico, figuriamoci il cinese stretto. Timidamente abbiamo chiesto se lo avessero in una lingua diversa, le cameriere si sono limitate a guardarcie e a sorridere placide. Sconsolate abbiamo fatto scorrere lo sguardo intorno per controllare se fossero arrivati altri ospiti, così avremmo potuto avvicinarci al tavolo, sbirciare cosa stessero mangiando e, indicando, ordinare lo stesso piatto. Niente, l'ora era troppo antelucana persino per una città meno mondana di Shanghai e Pechino (ooops, Beijing). Che si fa, ci chiedevamo, mentre le cameriere stavano ritte e silenziose, ognuna impettita dietro alla sedia di una commensale. Un commensale, una cameriera questa era la politica del ristorante. Una sesta cameriera, con un vassoio, avrebbe poi fatto avanti indietro dalla cucina per portare le pietanze e riportare i piatti sporchi. Un servizio da re. A noi sarebbe piaciuto tanto mettere qualcosa sotto i denti, ma come fare per ordinare? Cosa vogliamo mangiare, ci siamo chieste. Pollo, massì, pollo. Quanti piatti? Diciamo uno a testa e che Dio ce la mandi buona, speriamo che arrvino diversi. I cinesi sono molto, molto intelligenti ed intuitivi, stava a noi farci capire. Ci siamo guardate, abbiamo guardato una delle cameriere che ha sorriso e si è avvicinata un po'. Allora, e solo allora, la mia amica si è alzata, ha fatto il gesto di mangiare, ha mostrato il menu e la cameriera ha annuito aspettando il resto. La mia amica, una bella donna, alta bionda, elegante si è messa su una gamba sola, ha cominciato a camminare muovendo la testa avanti e indietro, ha raspato anche un po' col piede, e infine ha mimato il gesto delle ali; poi si è ricomposta e ha fatto il gesto per il numero sei. Senza muovere un muscolo facciale, tranne il sorriso d'ordinanza, la cameriera è andata in cucina. Sono arrivati sei magnifici piatti di pollo, uno diverso dall'altro, uno migliore dell'altro. Un'esperienza magnifica. Per fortuna che la cena si è protratta a lungo e che sono arrivati altri clienti, così abbiamo potuto assaggiare anche piatti di manzo, anatra e verdure.

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