martedì 28 febbraio 2012

PESCA MIRACOLOSA IN RIVIERA

Era una giornata di luglio, bellissima. Il cielo era veramente azzurro, di quell'azzurro trasparente e senza una nuvola tipica delle estati della mia infanzia e adolescenza. Il mare, come diceva la canzone, era una tavola blu. L'acqua era perfettamente, inequivocabilmente liscia, non si muoveva niente, perché neanche una bava di vento poteva increspare il mare e il solito sciabordio, quello delle onde che si frangono sulla riva, era appena percettibile. Umidità atmosferica pari a zero e sole a picco. Sono anni che non ne vedo più mesi di luglio così, adesso è tutta una sinfonia di afa e umidità anche a bordo spiaggia. Quel giorno sugli scogli c'era silenzio. A noi piaceva stare su quelle pietre nere venate di bianco, portare il nostro asciugamano, scegliere la pietra più piatta e comoda vicino all'acqua. Anche mia mamma aveva preso l'abitudine di stendersi lì al sole con un materassino e un asciugamano, lontano dall'ombrellone e dalla sedia a sdraio, per stare un po' in solitudine. Pur non amando particolarmente il mare a mia mamma era sempre piaciuto scendere in spiaggia presto, godersi i momenti più tranquilli e meno roventi, rientrando a casa per il pranzo e poi ritornare al tramonto. Restava sugli scogli finché noi ragazzi non approdavamo lì, nella tarda mattinata, allora si eclissava discretamente. Quel giorno faceva caldo e lei non aveva abbandonato la postazione, noi non ci sentivamo liberi di dire tutte quello che ci veniva in mente e siamo finiti a parlare di futilità non compromettenti con lei. Faceva talmente caldo, che mia mamma, nota per non essere un'amante dell'acqua, aveva fatto quattro bracciate a rana tra la riva e gli scogli. Lì si era fermata, perché, da buona donna di montagna, a lei l'acqua piaceva bianca, ghiacciata e ferma, soprattutto poco profonda. Il contrario di sua figlia, detta il Cane delle Nevi per il suo stile poco elegante sulle piste da sci, che invece l'acqua la preferisce azzurra, tiepida e semovibile. Faceva talmente caldo che tutti noi ci eravamo trovati uno scoglio a pelo d'acqua e, dopo aver controllato che non ci fossero patelle, pomodori di mare e altre amenità animali, avevamo immerso le gambe fino al ginocchio.  Le nostre conversazioni erano così poco interessanti che all'improvviso avevamo deciso di tacere creando l'impressione di un silenzio rispettoso, degno della calma piatta di quel giorno. Anche mia mamma si era piazzata sulla punta del molo, le gambe immerse nell'acqua, i piedi poggiati su uno scoglio più basso. Ogni tanto muoveva una gamba e poi l'altra, spostandole  un po' a destra e un po' a sinistra, formando dei cerchi concentrici sul pelo dell'acqua. Tutti noi siamo rimasti in religioso silenzio respirando il mare, guardando il filo dell'orizzonte. Sole, mare, silenzio, un momento magico di una calda mattina di luglio. All'improvviso, nella calma ieratica di quella mattina è esploso un "oh-oh-oh", un singhiozzo quasi sussurrato. Ci siamo girati tutti verso il suono profano, la magia evaporata. Mia madre ci guardava, gli occhi sbarrati, senza riuscire a parlare. Il suono che usciva dalla sua bocca, l'oh-oh-oh, era diventato più acuto e urgente. D'improvviso si è girata e, tolta una gamba dall'acqua, ha cominciato a strillare, uno strillo acuto, intenso, raggelante. Come già detto mia mamma non è donna di mare, e per altro su certe cose era, e rimane, decisamente fifona. Per spiegare quando mia mamma sia coraggiosa posso dire una cosa: mettetela in un campo di battaglia con le pallottole che fischiano, e non farà una piega, ma non fatele vedere un topolino di campagna correre lungo una trave. Quella era un'occasione da topolino. Ci siamo guardati,  non capendo bene la dinamica, pensando che uno squalo baby fosse arrivato a riva e le avesse allegramente addentato una gamba. Abbiamo guardato meglio e visto finalmente il motivo dell'urlo. Lunghe strisce di colore bianco marmorizzato marrone disegnavano strani ghirigori sulla coscia abbronzata di mia mamma. Una palla, quasi un grumo, spesso e marrone, le deturpava lo stinco. Una volta capito cosa era successo, come solo gli adolescenti sanno fare nei momenti meno opportuni, abbiamo cominciato a ridere. C'era un povero, timido polpo aggrappato alla gamba di mia madre, apparentemente perplesso e indeciso sul da farsi. Se avesse avuto gli occhi in vista sarebbero stati sbarrati. Nell'indecisione aveva optato, poi, per la soluzione più semplice, stare fermo, immobile, ferocemente attaccato al nuovo scoglio, per vedere se il pericolo fosse sparito così come era arrivato. "Scusate, pensate di fare qualcosa?" ha chiesto terrorizzata mia mamma. "Metti la gamba in acqua" è il suggerimento migliore che siamo riusciti a dare. In quel momento, un mio amico, pescatore e subacqueo appassionato, si è avvicinato a mia mamma, che nel frattempo aveva infilato la gamba in acqua, e ha afferrato a mani nude il polpo che aveva iniziato una lenta e opportuna ritirata nella tana.
Quella sera c'è stata una grande cena a casa nostra, piatto forte: un bel polpo con patate, tipico delle nostre parti. Tutti felici abbiamo chiesto scusa al povero polpo, anche se piuttosto soddisfatti della pesca miracolosa. Per alcuni giorni mia mamma ha girato coi segni delle ventose sulle cosce  sfoggiando, quasi fosse un trofeo, un insolito tipo di tatuaggio ramificato. Questo in tempi nei quali i tatuaggi li portavano solo i molto eccentrici e i carcerati.

Nessun commento:

Posta un commento