lunedì 11 luglio 2011

DOLCE FORNO CUISINE

Da piccola ero un maschiaccio. Anomalo, ma pur sempre un maschiaccio. Infatti vivevo una grande contraddizione: adoravo le bambole, ma impazzivo per i soldatini; giocavo alle signore, però correvo subito se si trattava di fare gli inseguimenti di guardie e ladri o indiani e cowboy; mi arrampicavo sugli alberi e in contemporanea spalmavo le unghie di colla per farla sembrare smalto: imparavo a fare la lotta e truccavo, fino a farla sembrare un travestito, quella santa di mia nonna. Ho cicatrici dalla testa ai piedi, svariati punti di sutura conquistati cadendo da alberi, bucandomi con dei chiodi, volando dalla bicicletta, ma anche uno sviluppatissimo senso per la moda, il trucco e le cose muliebri. Tuttora la contraddizione esiste, ho molti amici maschi e tante amiche donne, nessuna distinzione quando si tratta di confidenze, solo segreti mantenuti anche sotto minaccia, faccio pugilato e metto i tacchi alti. L'unico punto fisso di tutta questa storia di contraddizioni è il forno. Il mio sogno di bambina monella era possedere il Dolce Forno, per due Natali lo avevo chiesto nella letterina a Babbo Natale, ma pare fosse esaurito tutte e due le volte. Quando finalmente ho trovato il grande scatolone sotto l'albero è stata gioia suprema, da quel momento ho cominciato a sfornare di tutto.
Per chi non ne ha mai posseduto un Dolce Forno o non conosce l'oggetto ecco la descrizione del mio: un parallelepipedo giallo, strutturato per sembrare una stufa a gas, vuoto dentro, con due lampadine per un totale, sicuro, di un milione di watts, una presa da attaccare alla corrente, una finestrella per controllare la cottura e delle tegliette di allumino da infilare da una parte, con la pietanza cruda, e da far uscire dall'altra con la pietanza cotta. Gli accessori erano banali per una cucina: un mattarello, tanto piccolo che nemmeno le mani di una bambina riuscivano a maneggiare con abilità, un misurino-ino-ino, delle ciotoline colorate dimensione Puffo ed un libretto di ricette. Una meraviglioso oggetto elementare che ha fatto impazzire le bambine della mia generazione e qualcuna delle successive. Un oggetto semplice che mi ha corrotta per sempre, facendo della cucina la mia ossessione. Ho passato i migliori pomeriggi della mia vita a sfornare le ricette descritte nel libretto di istruzioni dalla torta al cioccolato, alla torta margherita, passando per la frittata al prosciutto, arrivando alla mitica torta a tre strati farcita di crema pasticcera e ricoperta di crema al cacao. Cucinavo meglio a otto anni che a venti, perché abbandonato il dolce forno non ho mai più toccato una padella fino ad una sera fatidica a Londra (vedi il racconto Due Spaghi a Londra a maggio nel blog) e al successivo riscatto culinario. Il mio diletto assoluto era preparare la torta al cioccolato, uno dei miei dolci preferiti ancora oggi, ne sfornavo quantità industriali a tutte le ore. Non contenta avevo anche creato quelle che io pensavo magnifiche varianti, tipo la torta zebra a tre strati: due di torta al cioccolato, piano superiore ed inferiore, in  mezzo torta di albumi bianca come la neve (una discreta porcheria da sola, ma fantastica abbinata) a cui avevo alternato strati spruzzati dalle prime bombolette di panna spray. Un dolce scicchissimo, bianco e nero, e voluttuoso, secondo noi bambini, che non conoscevamo ancora la parola voluttuoso, ma senz'altro la immaginavamo mentre mangiavamo questa torta. Una vera schifezza secondo i genitori costretti ad assaggiare fette minuscole (le tegliette avevano le dimensioni di un piattino da caffé) di sbobba sfornata e, soprattutto, elaborata da noi. La cosa più succulenta che sfornavo con le mie amiche era la frittata di prosciutto e formaggio, sempre troppo cotta e un po' filacciosa come non deve essere una frittata, sapeva alternativamente di prosciutto bruciato o formaggio fuso male. Una volta abbiamo esagerato nella quantità di miscuglio uova-formaggio-prosciutto e mentre cuoceva la frittata ha cominciato a diventare un'immondo blob che ha quasi distrutto il Dolce Forno. Rivoli di composto molle colavano dalle tegliette verso le lampadine e lì seccavano diffondendo un odore di peli bruciati nell'aria. Ricordo con un misto di nostalgia e tenerezza la pizza fatta con il pane in cassetta. Doveva essere terribile, ma noi ne andavamo fieri. Un pomeriggio ho anche deciso di fare io la panna montata per la torta al cioccolato, ho preso il latte in frigo, ho aggiunto un bella cucchiaiata di zucchero e con una frusta ho cominciato a montare come vedevo fare a mia mamma. Monta che ti rimonta passavano i minuti e la panna non diventava soffice e vaporosa come quella della mamma o quella spruzzata dal parattolo di Spray Pan. Monta ancora e non diventava spumosa, mi sono innervosita, e un po' frustrata ho pensato di non essere portata per montare la panna, ho bevuto il latte zuccherato inzuppando la torta al cioccolato appena sfornata. Mai provato? Io lo faccio ancora oggi, latte leggermente zuccherato torta al cioccolato. Consolatorio, anche se oggi la panna la monto niente male. Ho anche giocato col piccolo chimico, ma non con la stessa passione. Forse vi è andata bene o forse no. E' grazie al dolce forno che quotidianamente vi ammorbo con i miei racconti e le mie ricette. Sapete con chi prendervela.

RICETTA ORIGINALE DELLA TORTA AL CIOCCOLATO DEL DOLCE FORNO


6 misurini di farina - 4 misurini di zucchero - 2 misurini di cacao - 1 misurino di burro fuso - 1 uovo - 1 pizzico di sale

Sbattere in una scodella il tuorlo e l'albume con lo zucchero. Aggiungere la farina e il burro, quando tutti i grumi si saranno sciolti aggiungere il cacao e il sale. Mettere la pasta nello stampo ben imburrato ed infarinato e far cuocere per 23 minuti circa.
per una teglietta del Dolce Forno


P.S. Non chiedetemi dove ho trovato la ricetta, ho i miei segreti. Non so come facesse a venire bene una torta al cioccolato senza lievito né albume montato a neve, questi sono i misteri del Dolce Forno. Forse avevano ragione i genitori a non essere troppo entusiasti degli assaggi. 

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