lunedì 23 maggio 2011

UNA COFANA A DAMASCO

Mia mamma è sempre stata una donna elegante, ci teneva al suo aspetto e ci tiene ancora oggi che non è più una ragazzina. Non  l'ho mai vista uscire senza rossetto, per esempio. A pensarci bene non l'ho mai vista senza rossetto nemmeno in casa. Quando era più giovane e io piccolissima lavorava, ma riusciva a passare dal parrucchiere per un "colpo di pettine" un giorno sì e uno no. Erano i tempi delle cofane, le pettinature raccolte e fermate con tonnellate di lacca. Molto chic e impegnative, si abbinavano a tailleur con giacchette corte e gonne appena sopra il ginocchio, colori sobri, blu o nero in inverno, pastello nella bella stagione. Ricordo che aveva un bellissimo cappotto di lana pesante pied-de-coq (che si distingueva dal pied-de-poule per il gigantismo dei quadratini) beige e blu. Tremendamente chic e adatto al clima di montagna da mezza stagione, cioè già bello freschino.
Un giorno mio padre ricevette la lettera di trasferimento. Tutta la famiglia da quel momento avrebbe vissuto in una città esotica e lontana. Damasco. Mio padre andò in avanscoperta, scelse la zona dove vivere,  la casa e una piccola parte dell'arredamento e poi ci chiamò.
Era ottobre inoltrato e mia madre con la sua cofana, il suo cappottino pied-de-coq e me, salì sull'aereo che la portava lontano da tutto quello che aveva conosciuto fino a quel momento. All'epoca già prendere la macchina ed andare da Milano a Roma era un viaggio epico. Figurarsi andare fino in Siria, un paese lontano e soprattutto in guerra. Sotto lo sguardo dei parenti perplessi, salimmo sull'aereo a Milano in una giornata tersa e fresca. Quando a Damasco i portelloni dell'aereo si aprirono entrò una zaffata di aria umida e calda. Mia mamma intuì immediatamente che il suo cappottino chic era fuori luogo, sudava leggermente. Mio padre ci aspettava con la macchina di servizio. Ci portò subito a casa perché stava per iniziare l'ora del coprifuoco. Arrivammo in una palazzina con pochi piani e mia madre fece per salire le scale verso il primo, niente ascensore. Mio padre con delicatezza le indicò le scale in discesa, quelle verso il seminterrato "E' più sicuro" disse. Mia mamma ebbe un tuffo al cuore. Il peggio doveva ancora venire. La casa era spoglia, mio padre aveva comprato poche cose, un po' tetra e triste. Dalla porta d'ingresso partiva un lungo corridoio dipinto di bianco sul quale si affacciavano altre porte, tutte disposte a sinistra verso la strada. Sulla destra una lunga parete nuda. "Quando cominciano a sparare prendi la bambina e mettiti qui" disse mio padre indicando la parete di destra "è il muro maestro, non ci sono finestre e non dovresti avere problemi con le pallottole vaganti. Io adesso devo andare". La mano di mia mamma stringeva la mia delicatamente, ma con una certa forza. Mio padre la baciò e uscì. Era passata appena un'ora dall'atterraggio e ci trovammo sole io e lei. Non aveva ancora trent'anni, aveva una bambina piccola e si trovava in una casa sottoterra in una città sconosciuta. Restammo in piedi nel corridoio, attorniate dalle valigie, io nel mio cappottino di velluto blu, lei nel suo pied de coq. Passò un tempo infinito, io e lei mano nella mano a guardarci intorno. Partì la prima di una lunga serie di raffiche di mitra. Entrambe sussultammo. Mia mamma non trovò di meglio da fare che togliersi il cappotto e andare in bagno per disfare le cofana. Tolse tutte le forcine e quella restò lì immobile, dura e ritta. Tentò di infilarci dentro le dita. Calcestruzzo armato. Il caldo umido aveva compattato le tonnellate di lacca impedendo alla capigliatura di riprendere la sua forma originaria, la cofana stava lì tronfia a guardare mia mamma che aveva le lacrime agli occhi. Poi lei si girò, mi guardò e rise.

LATTE E BISCOTTI

Quella sera mia mamma mi diede da mangiare il nostro piatto preferito. Latte e biscotti. I biscotti erano terribili, sapevano di segatura (io non ricordo, ma mia mamma garantisce), il latte buonissimo.  Nei giorni successivi cucinò tutti i miei piatti preferiti. Il difficile era fare la spesa, un giorno vi racconterò. 


250 gr di farina - 125 grammi di burro - 50 gr di zucchero - 1 uovo e 1 tuorlo - uvetta o gocce di cioccolata, mandorle tritate, nocciole tritate a scelta - latte q.b.

Mettere il burro ammollato in una ciotola e lavorarlo con lo zucchero finché non è ben amalgameto, aggiugere le uova e mescolare ancora, a questo punto mettere la farina e l'uvetta (o un altro degli ingredienti scelti), lavorare con le dita velocemente finché non prende consistenza. Se fosse necessario (impasto secco) aggiungere latte poco alla volta. Arrotolare la pasta come se fosse un salame coi bordi appiattiti. Far raffreddare in frigo per un'ora almeno. Tagliare a fette dello spesso di 1,5 cm. Disporre i biscottini sulla placca rivestita di carta forno. Far cuocere a 160 gradi finché non saranno dorati.

P.S. Servire con latte, the o caffè o mangiarli senza accompagnamento in un momento di tristezza.





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