lunedì 14 marzo 2011

IL VOLO

Per un certo periodo della mia vita la rotta Italia-Argentina-Italia è stata quasi un'abitudine. Il mio fidanzato viveva a Buenos Aires e spesso piantavo le tende a casa sua per lunghi periodi. Il volo era lungo, dalle 13 alle 17 ore, se era diretto era più veloce, se faceva scalo era una tradotta. Gli scali potevano essere due o tre, incluso un cambio in una città europea. Quello di quel giorno era uno dei primi Roma-Buenos Aires diretti. Salivi sull'MD11 a Fiumicino, solcavi le nuvole sull'oceano per tutta la notte e la mattina ti ritrovavi all'aeroporto di Ezeiza fresco come un piccione viaggiatore stanco.
Per gli amanti del "forse non sapevate che": era anche il volo senza scalo più lungo della compagnia di bandiera, a pari merito col Roma-Tokyo.
Sedeva accanto a me una signora argentina molto gentile, ma in vena di conversazione.  Io avevo il posto accanto al finestrino e lei quello sul corridoio, quindi ero incastrata tra l'oblò, la signora e le mille parole al secondo che le uscivano di bocca. Dopo quel viaggio ho sempre scelto il posto in corridoio, una via di fuga eccellente. La signora aveva paura di volare e me lo aveva annunciato subito dopo essersi presentata. Ana, si chiamava, Ana un nome che non posso dimenticare. Se c'è una paura che non ho mai avuto è proprio quella di volare, potete tenermi giorni interi nella pancia di un aereo e farmi sfrecciare sugli oceani, io al massimo dormo. La signora no, lei era terrorizzata e continuava a puntualizzarlo, ancora prima che il pilota avesse acceso i motori. Non fece che parlare dell'aereo che poteva - Dio ce ne scampi e liberi - avere un guasto oppure diceva,  guardi signorina, guardi, e tirava fuori dalla borsetta le foto spiegazzate di un velivolo non ben identificato sfracellato contro una montagna (ecco, mi ci voleva proprio); e poi ancora, le hostess, continuava, non ti guardano nemmeno, non si preoccupano del tuo benessere, lo sa anche lei, vero signorina? Io avrei voluto avere dei tappi di cera, delle ali di cera, delle gambe di cera, avrei voluto essere di cera e fondere lì sul posto, prima ancora del decollo. Eravamo ancora saldamente a terra e desideravo che alla signora spuntassero delle ali affinché potesse volare via da sola. Forse speravo che diventasse un angelo con tutte le conseguenze e antecedenze del caso. Nonostante tutto cercavo di essere gentile e la confortavo assicurandole che l'aereo era nuovo (vero, si trattava di un MD 11 di appena qualche mese), raccontandole cose allegre. Il peggio era alle porte, anzi alle colonne, alle colonne d'Ercole.
Durante la notte le spie d'avviso si accesero tutte, l'interno pareva un albero di natale pronto per la vigilia. Sull'Atlantico, mai avaro di perturbazioni, quella notte si era scatenato l'inferno. C'era la madre di tutte le perturbazioni e turbolenze. L'aereo beccheggiava, saliva e scendeva, andava a destra e a sinistra, minacciava di cadere da un momento all'altro. Sopra alle nuvole, a diecimila metri di altitudine, cosa strana, il possente MD11 era  come come un fuscello in balia del mare forza 9. La signora, bianca come un cencio, si era appesa al mio braccio e mi conficcava le unghie, piuttosto lunghe, dentro alla carne del braccio "Glielo avevo detto che saremmo caduti, che saremmo caduti, precipitati, schiantati". La mia risposta la gelò "Le auguro proprio di no, signora. Sa quante probabilità abbiamo di sopravvivere se tocchiamo al superficie dell'oceano? Zero signora, zero. E se pensa che potrebbe sopravvivere all'impatto, se lo tolga dalla testa. L'acqua è fredda, là sotto,  molto fredda." Non era ancora uscito il film Titanic, con l'eroe che muore congelato e spiega la crudeltà dell'Atlantico. Questo la zittì, ma non le impedì di devastarmi il braccio, forse da qualche parte c'è ancora la mezza luna delle sue unghie, a memento dell'occasione, cicatrizzata ma sempre gloriosa. Per la prima, e unica, volta non chiusi occhio per tutta la notte, un groppo mi chiudeva la gola impedendomi di respirare bene. Credo che fosse paura di volare.
All'arrivo ero tanto agitata che per riprendermi dovetti mangiare otto Havanettes di seguito.  Mangio raramente cose dolci. Ecco, il sapore di quel viaggio è quello cremoso, burrroso, tostato del dulce de leche, la mitica e consolatoria caramella mou della nostra infanzia, ma spalmabile.

SEMBRA UN HAVANETTE

Gli havanettes sono dei dolci fatti con un piccolo e sottile alfajor, che è un biscotto morbido, sopra il quale viene messo un monterozzo, ha proprio la forma di un Monte Bianco in miniatura, di dulce de leche, soffice e deliziosamente morbido, il tutto ricorperto da un sottile strato di cioccolato fondente. Non esiste niente di più consolatorio.

1 barattolo di Dulce de Leche di buona marca - 250 gr di maizena - 200 gr di farina - 200 gr di burro a temperatura ambiente - 150 gr di zucchero - 3 tuorli  - la scorza grattugiata di un limone - 2 cucchiai di lievito  per dolci - 200 gr di cioccolato fondente

Setacciare le farina e il lievito. In una ciotola lavorare con una forchetta lo zucchero e il burro, aggiungere i tuorli uno ad uno, infine mettere le farine con il lievito e il limone grattugiato impastando il meno possibile ma in modo da ottenere una pasta morbida e liscia.  Su un piano infarinato stendere la pasta con il mattarello ad un altezza di mezzo centimetro e tagliare con il tagliapasta rotondo dei biscotti di 4 centimetri di diametro. Passare in formo a 160 gradi fino a doaratura, 15 min circa. Quando sono freddi mettere un po' di dulce de leche sul biscotto, coprirlo con l'altro biscotto e poi passarlo nel cioccolato fatto sciogliere a bagno maria. Lasciar raffreddare e degustare.


P.S. Soluzione veloce? Prendere cucchiaiate di dulce de leche dal barattolo e un Taralluccio del Mulino Bianco, spezzare un quadrato di cioccolato. Mangiare un po' di dulce de leche spalmato sul biscotto e un po' spalmato sul ciccolato, a bocconi.

3 commenti:

  1. adoro il cioccolato...

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  2. è bello arrivare e trovare qualcosa di dolce...

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  3. :-)))) Gli havanettes saranno gustosi, ma il tuo resoconto del volo aereo lo è altrettanto! Larana

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